il Giornale, 13 luglio 2019
Storia dell’omicidio di Marta Russo
Quello di Marta Russo è un delitto che rimane impresso nella memoria, anche a distanza di 22 anni. Una ragazza nel fiore degli anni uccisa mentre passeggia al fianco di un’amica in un viale dell’università La Sapienza, lì dove stava cominciando a costruirsi un futuro che un proiettile – sparato da una finestra dell’ateneo romano che le indagini faticheranno ad individuare – le negherà.
Alla fine di un’inchiesta travagliata e una vicenda processuale sulla quale sono stati sollevati molti dubbi, due colpevoli sono stati trovati e condannati: a sparare è stato Giovanni Scattone, il dottorando ritenuto freddo e ambiguo, con la complicità del collega Salvatore Ferraro. Tutti e due hanno scontato la condanna continuando a proclamarsi vittime di un clamoroso errore giudiziario. A lasciare intorno a questo omicidio senza movente un’aura di mistero propria dei gialli insoluti sono stati errori e incoerenze, clamorose ritrattazioni, sospetti di interrogatori non del tutto genuini e l’omertà dell’ambiente universitario preoccupato solo del proprio prestigio. Tanto che la sorella della vittima, Tiziana Russo, dopo un lungo silenzio ha sentito l’esigenza di scrivere un libro per opporsi a chi continua a portare avanti tesi innocentiste.
È la mattina del 9 maggio 1997: Marta Russo, 22 anni, viene colpita alla testa. Morirà quattro giorni più tardi senza riprendere mai conoscenza. I suoi organi verranno donati e da allora c’è un’associazione con il suo nome, voluta dalla famiglia, per diffondere la cultura della donazione. Dopo alcune ipotesi alternative presto abbandonate, si punta all’aula 6 dell’istituto di Filosofia del diritto e su una particella ritenuta di polvere da sparo trovata dalla scientifica sul davanzale della finestra al primo piano di Giurisprudenza. Un residuo di bario e antimonio sul quale durante il processo sarà guerra tra periti, tra chi riteneva quella particella conseguenza di uno sparo e chi invece la considerava frutto di inquinamento ambientale, tanto che analoghe particelle verranno ritrovate su numerose altre finestre dell’istituto. I magistrati si concentrano sulle persone che solitamente frequentavano l’aula 6. Partendo dall’ora dello sparo, le 11.42. A Scattone e Ferraro arriveranno soltanto in seguito e non prima di aver messo sotto torchio Maria Chiara Lipari, l’assistente che fece una telefonata proprio da quella stanza alle 11.44, due minuti dopo il colpo di pistola, che secondo l’accusa sarebbe partito proprio da lì. Inizialmente la ricercatrice afferma che nell’aula 6 a quell’ora non c’era nessuno, poi comincia progressivamente a popolarla di vari personaggi, dall’usciere Francesco Liparota alla segretaria Gabriella Alletto. Ma soltanto tre mesi dopo la memoria le consentirà di piazzare in quella stanza anche Scattone e Ferraro. La conferma che serve agli inquirenti arriva dalla Alletto, la segretaria, che farà i nomi dei due assistenti universitari soltanto durante il suo quattordicesimo, drammatico, interrogatorio e dopo aver negato allo sfinimento di essere stata nell’aula 6 al momento dello sparo. Difficile dimenticare certe intercettazioni in cui la supertestimone si sfogava con una collega: «Mi stanno convincendo che ero lì dentro, che hanno sparato da lì. Mi hanno messo in mezzo, io in quella stanza non c’ero, ma mi conviene dire che c’ero». Poi, dopo che anche l’allora direttore dell’Istituto, Bruno Romano, finisce ai domiciliari per favoreggiamento, durante l’ennesimo faccia a faccia con i magistrati, questa volta alla presenza del cognato poliziotto al quale di nuovo giura «sulla testa dei suoi figli» che lei in quella stanza non c’era e che la Lipari si era sbagliata, la Alletto cede e ricorda di aver visto Scattone sparare dalla finestra e Ferraro mettersi le mani nei capelli in segno di disperazione. Un gesto che gli costerà l’accusa di favoreggiamento perché sarà ritenuto responsabile di aver portato via dall’università la pistola in una borsa. Versione, quella della segretaria, alla fine confermata da Liparota, nel frattempo anche lui portato in carcere per favoreggiamento. Il giorno successivo alla sua altrettanto travagliata confessione, l’usciere ritratterà ogni accusa e al processo racconterà di aver parlato per lasciare il carcere, per poi pentirsene e tornare sui suoi passi.
Per la Procura di Roma ce n’è abbastanza per arrestare i due assistenti universitari. Anche senza un movente. Anche senza l’arma del delitto, che non è mai stata trovata. Ma poiché un movente serve per sostenere in tribunale un’accusa, i magistrati provano a proporre la tesi del «delitto perfetto», commesso dai due amanti della filosofia proprio per dimostrare che è possibile uccidere qualcuno senza un perché e senza essere scoperti proprio come da loro teorizzato in un seminario di logica giuridica, risultato poi inesistente. Un’ipotesi avventurosa, che si è persa nel corso della travagliata vicenda.
Dopo mesi di carcerazione preventiva per Scattone e Ferraro si arriva al processo di primo grado. Un dibattimento indiziario che appassiona e divide l’opinione pubblica, anche per la personalità degli imputati, due insospettabili bravi ragazzi che a tanti appaiono gelidi, distaccati, calcolatori, esecutori ideali di quel delitto perfetto teorizzato dai pm (nel frattempo anche loro finiti nei guai, e poi prosciolti, per il discusso interrogatorio della Alletto). Gli alibi traballanti dei due assistenti non aiutano. E nonostante nel corso del dibattimento vengano rimesse in discussione perfino l’ora del delitto e la traiettoria del proiettile, l’accusa regge e a giugno del 1999 arrivano le condanne. Data l’impossibilità di provare l’omicidio volontario (il pm Carlo La Speranza e il procuratore aggiunto Italo Ormanni avevano chiesto per loro 18 anni di carcere, ndr), a Scattone vengono inflitti sette anni per omicidio colposo e a Ferraro quattro per favoreggiamento. In appello vengono fatte nuove perizie e alla fine il pg Luciano Infelisi sollecita pene più pesanti (22 anni per Scattone e 16 per Ferraro) perché i due avrebbero sparato accettando il rischio di uccidere qualcuno. Giuridicamente il delitto andava qualificato quantomeno con il «dolo eventuale». Ma anche questa tesi vacilla e dopo una camera di consiglio durata 12 ore i giudici condannano Scattone a otto anni per omicidio colposo aggravato e Ferraro a sei per favoreggiamento. Stessa accusa per Liparota, assolto in primo grado, che si ritrova a dover scontare quattro anni. La sentenza d’appello verrà annullata dalla Cassazione. Il nuovo dibattimento conferma le condanne, che diventano definitive dopo la pronuncia della Suprema Corte il 15 dicembre del 2003: cinque anni e quattro mesi a Scattone, quattro anni e due mesi a Ferraro, assoluzione per Liparota.
I due (ormai ex) assistenti universitari non hanno mai confessato il delitto e hanno finito di scontare la propria condanna, Scattone in carcere, Ferraro ai domiciliari. Ma anche dopo, la loro vita non sarà più la stessa. Scattone, in particolare, costretto ad abbandonare la carriera universitaria, si rifugia nell’insegnamento. Il marchio dell’assassino però lo insegue e con esso le polemiche di chi non lo vuole dietro ad una cattedra. Anche se sarebbero i genitori di Marta gli unici legittimati a scandalizzarsene.
Patricia Tagliaferri