il Fatto Quotidiano, 13 luglio 2019
Pompei va a ruba su eBay
Sotto la terra vulcanica di Pompei si trovano ossa umane. E non sono solo quelle incenerite degli sfortunati abitanti di duemila anni fa avvelenati dai fumi del Vesuvio. Sono morti recenti: tombaroli intrappolati nei cunicoli che hanno scavato per rubare reperti. Perché ai piedi del Vesuvio c’è ancora un mondo da scoprire: domus disseminate fuori dalle mura, tra la campagna verdissima, profumata di ligustro e il mare. Almeno 22 ettari ancora da scavare, su 66 dell’area archeologica totale. Sono lì, aspettano soltanto di essere scoperti. È l’Eldorado dei ‘tombaroli’: meno controlli, meno turisti… Così alla periferia della zona scavata succede di tutto.
L’architetto Antonio Irlando conosce ogni strada, ogni incrocio, la vita, i nomi e le abitudini degli abitanti scomparsi. È lui a portarti, seguendo un meandro di stradine, fino alla località Civita Giuliana. Qui, dietro un muro di cinta, anni fa i Carabinieri fermarono degli scavi abusivi. È ancora tutto lì: tubi di ferro, mucchi di terra. E una buca da cui emergono i muri di un’antica Villa romana. All’estero basterebbe questo per farne un museo.
Per controllare questo Louvre a cielo aperto e per recuperare i beni rubati nell’intera regione Campania (che conta altri siti archeologici come Ercolano e Paestum), sono soltanto 10 i carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio artistico e culturale, diretti dal Maggiore Giampaolo Brasili. Mentre le tecniche della “mafia dei reperti” diventano sempre più raffinate. Dimenticate l’epoca in cui a rubare erano dei ladruncoli un po’ disperati. Gente che, racconta Irlando, era armata di spilloni, aghi metallici lunghi fino a dieci metri da infilare nella terra, affidandosi alla loro esperienza. Quando lo spillone all’improvviso si piantava nel terreno, ecco raggiunta la quota dell’antica Pompei. E, se urtava contro qualcosa di duro, si maneggiava l’ago per cercare di capire, dalla superficie, se lì sotto ci fosse un muro. Una Villa. Il tesoro. Oggi, invece, ci sono i metal detector e gli scanner, capaci di individuare metallo a metri di profondità. Potrebbero essere monete, posate, come la stupenda argenteria ritrovata pochi anni fa nella domus di Boscoreale.
Ma potrebbe anche trattarsi, come abbiamo raccontato nelle scorse puntate di “Sherlock”, di bombe inesplose della Seconda Guerra mondiale.
Rubare reperti a pochi passi dall’area archeologica è più difficile. Così sono state elaborate tecniche particolari. Mimetiche. Si parte costruendo una serra, come ce ne sono centinaia in questa piana così fertile, coperta di lamiera o di plastica e lunga decine di metri. Poi in mezzo alla piante, ecco un piccolo buco. Poche decine di centimetri, giusto lo spazio per infilare gli strumenti e una telecamera. Se inquadra qualcosa, il buco diventa un tunnel di 60-70 centimetri di diametro per farci passare le spalle e calarsi. Il “tombarolo” scende nella terra, a testa in giù, con una luce frontale. Se crolla tutto, viene sepolto dai lapilli.
Parliamo di una “industria” che conta su decine e decine di addetti, ognuno con una sua specialità. I tombaroli non agiscono mai da soli. Sono paranze che vengono chiamate “squadre”: a comporle di solito tre persone. È il primo anello. Gli scavatori vengono da Castellammare di Stabia, Mondragone e Casal di Principe, le stesse cittadine che da sempre forniscono gli operai più qualificati per i cantieri di mezza Italia.
Per scavare sottoterra servono mani forti e delicate, scalpellini precisi per non danneggiare i reperti. Per non dire delle abilità che ci vogliono per rubare frammenti di un mosaico, merce assai richiesta sul mercato. Nel marzo 2014, l’allora direttrice degli scavi di Pompei, Grete Stefani, denunciò il furto di un intonaco affrescato raffigurante il volto di una donna seduta. Una porzione di 20 centimetri di diametro sottratta alla Casa di Nettuno, aperta al pubblico e senza video-sorveglianza. È da questo furto che partì la maxi-operazione “Artemide”, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli, contro il traffico illecito di reperti archeologici rubati (oltre 2mila quelli sequestrati, tra anfore, monete, vasi, e 142 indagati).
Scavatori e scalpellini sono il primo anello. C’è poi una zona grigia tra le mani sporche di terra del tombarolo e quelle ben curate dei milionari acquirenti. È quella che assicura, a vari livelli, di “ripulire” la storia del reperto rubato, dandogliene una nuova, più “rispettabile”, più appetibile. Le carte dell’inchiesta Artemide ricostruiscono il meccanismo. Ritraggono figure sorprendenti, come quella dell’ormai famoso “Raf”, così lo chiamano gli amici. Si tratta di Raffaele Monticelli, classe 1942, un maestro elementare di Lizzano, Taranto. “In Campania fanno riferimento a lui”, si legge nelle carte. Frida Tchacos, un’antiquaria-mercante con galleria a Zurigo, arrestata nel 2002 a Cipro, parlando con i pm raccontò di “un preciso triangolo di cui faceva parte Monticelli”, fornitore “di ogni cosa si trovasse nel Sud Italia: vasi apuli, terrecotte, bronzi”. “Raf” ha una conoscenza sconfinata del patrimonio archeologico italiano, ed è una persona abile, diffidente, scaltra. “Si sposta in treno e utilizza per le comunicazioni schede estere e/o pubbliche (cabine telefoniche) evitando così di essere oggetto di controllo”. Un “grande vecchio” del traffico delle opere d’arte, come lo definiscono gli investigatori, o un innocuo maestro appassionato di antichità? Le cronache, che si sono occupate spesso di questo anziano signore finito anche agli arresti domiciliari, ricordano che a Monticelli nel 2017 sono stati confiscati beni per 22 milioni di euro, tra cui un appartamento affacciato su piazza della Signoria, a Firenze. Lui, attraverso gli avvocati sentiti dai cronisti, si proclama innocente e ricorda di non avere condanne definitive. “La criminalità organizzata controlla e gestisce il traffico di opere d’arte, considerato secondo, per introiti e giro d’affari, solo a quello della droga e delle armi”: lo dicono le carte delle inchieste come l’operazione “Artemide”. Dietro il mondo dei tombaroli si muove, assai discreta, la camorra, che investe. Ne ha parlato anche un “pentito”, ex tombarolo, come Domenico Frascogna, che fece ritrovare un centinaio di reperti archeologici trafugati dall’area casertana e da Pompei, e portò a una inchiesta della Dda di Napoli con 35 indagati. “I capitali acquisiti da altri traffici illeciti vengono reinvestiti nell’acquisto di opere d’arte”, spiegano gli investigatori: l’anfora come mezzo per riciclare il denaro proveniente dal traffico di droga e dal pizzo. Una lavatrice perfetta.
Poche volte le opere d’arte finiscono a impreziosire le ville dei boss. Il resto vola lontano. A ogni passaggio – “tanti e velocissimi”, dicono gli inquirenti –, a ogni “canale delinquenziale” con cui viene in contatto, l’opera rubata si ripulisce, e aumenta così la sua quotazione. Fino ad arrivare “alle case d’asta di Monaco di Baviera, Svizzera, San Marino. In particolare – scrivono ancora gli investigatori – uno dei canali per commercializzare e ripulire i reperti archeologici sono proprio le case d’asta estere e quelle online”. Gli ambienti ovattati e luccicanti delle case d’asta sono un anello fondamentale: “Di fatto, il reperto archeologico uscito clandestinamente, all’atto della sua vendita è corredato da documentazione d’acquisto che ne certifica il valore e la legittima provenienza”. I mercanti d’arte vendono, per fare soldi e per ripulire i tesori: “È stato riscontrato – avvertono i Carabinieri – come alcuni reperti archeologici di particolare valore, una volta messi all’asta, venissero acquistati dalle stesse persone fisiche o giuridiche che avevano dato mandato a vendere”. Si vende un bene sporco e lo si ricompra pulito.
Oggi la nuova frontiera del traffico di reperti è internet. Non solo il deep web. Così, poche settimane fa, qualcuno ha notato che su eBay erano finiti due “frammenti di intonaco romano da Pompei con vernice originale, foto allegate. Prezzo: 185 euro”. La scoperta è finita in una segnalazione che il consigliere regionale della Campania Francesco E. Borrelli (Davvero Verdi) ha inviato al Parco Archeologico e ai Carabinieri, indicando anche il venditore, “sito nel Regno Unito, e che, secondo la descrizione a corredo dei reperti, garantirebbe l’autenticità attraverso una non meglio specificata certificazione”. Chissà cosa avrebbero pensato Poppea e i patrizi romani se avessero saputo che i frammenti delle loro ville sarebbero finiti in un mercato virtuale, venduti forse dagli eredi dei Britanni.