Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2019
In Germania 40 miliardi per l’addio al carbone
La spettacolare avanzata dei Verdi tedeschi, alle elezioni europee e negli ultimi sondaggi che li vedono primo partito davanti alla Cdu, sta già avendo un impatto sulle politiche economiche e ambientali del Paese. In Germania la lotta al cambiamento climatico è in testa alle preoccupazioni dell’opinione pubblica e il nuovo ecologismo pragmatico e di governo ne ha preso rapidamente atto, non soltanto a livello locale, complice l’onda lunga dello scandalo dieselgate e la transizione accelerata dell’industria automobilistica dal motore a combustione a quello elettrico.
Berlino ha cambiato recentemente posizione sui nuovi target di riduzione delle emissioni di Co2 e all’ultimo vertice europeo un accordo generale è stato impossibile soltanto a causa dell’opposizione di alcuni Paesi dell’Est, contrari ad un abbandono a tappe forzate dell’energia elettrica generata dalle centrali a carbone, altamente inquinanti.
Soltanto pochi mesi fa la Germania si era rifiutata di sottoscrivere l’impegno a raggiungere la cosiddetta “carbon neutrality” entro il 2050, cioè un livello “0” di emissioni nette. Ora è disposta a farlo. Non solo. Nelle settimane scorse il Governo ha fatto proprio il piano di una commissione di esperti che prevede il completo smantellamento degli impianti e delle miniere di carbone entro il 2038 e possibilmente entro il 2035.
Sarà una transizione difficile che colpirà in particolare gli Stati dell’Est, i più poveri, quelli dove il disagio economico sociale è più forte, quelli dove l’estrema destra di Alternative für Deutschland prospera ed è spesso il primo partito. Le risorse messe in campo dal governo federale sono ingenti, 40 miliardi di euro: servono ad accompagnare la trasformazione e attutire i contraccolpi occupazionali. Le centrali a carbone, le miniere di lignite e il loro indotto danno lavoro a 60mila persone, concentrate perlopiù nelle zone orientali e di confine del Paese. Epicentro di questa trasformazione è la Lusazia, regione che si divide tra i Länder di Brandeburgo e Sassonia, la Polonia e la Repubblica Ceca.
È uno sforzo paragonabile a quello compiuto negli anni 90 nella valle della Ruhr, con la chiusura delle miniere di carbone e delle acciaierie. Un processo di deindustrializzazione accelerata che la Germania ha saputo gestire bene attraverso bonifiche ambientali, la conversione economica di intere aree e centri (il caso di Duisburg, diventato uno dei più importanti hub logistici mondiali nonché terminal ferroviario europeo della Via della Seta), il restauro dei vecchi impianti, trasformati in parchi tematici, centri culturali, centri di ricerca, musei e gallerie d’arte contemporanea. C’è anche l’intenzione di trasferire nella regione colpita dalle chiusure circa 5mila posti di lavoro della pubblica amministrazione.
Da molti anni la Ruhr è tornata ad essere un luogo d’attrazione, anche turistico e culturale. Lo schema che ha in mente il governo federale è identico e le risorse finanziarie dovrebbero permettere di raggiungere l’obiettivo. In autunno verrà definita la tabella di marcia delle chiusure mentre il rapporto della commissione suggerisce una prima riduzione della capacità generata da queste centrali di almeno di 12,5 GW entro il 2022.
Si tratta di un altro passaggio importante della transizione energetica tedesca, segnata dall’annuncio dell’abbandono del nucleare nel 2011 dopo la tragedia di Fukushima; da un’accelerazione impressionante verso le rinnovabili; e successivamente dalla riconversione dell’industria automobilistica, presa in contropiede dalla crisi del diesel.
Nonostante gli sforzi legati alla cosiddetta “Energiewende”, la svolta energetica, la Germania finora ha fatto molta fatica a ridurre le emissioni di Co2 mantenendo un atteggiamento ambivalente nei confronti del nuovi e ambiziosi target indicati dalla Commissione europea. Ancora l’anno scorso le centrali alimentate a lignite e carbon fossile hanno prodotto il 40% dell’energia elettrica complessiva del Paese.
I mutamenti politici degli ultimi mesi, con la possibilità per i Verdi di giocare un ruolo di governo anche a livello federale in caso di fine anticipata della Grosse Koalition, e le virtuose esperienze dei Grünen nelle amministrazioni locali e regionali, hanno finalmente reso possibile il salto di qualità che la Germania prometteva (e attendeva) da tempo.