il Giornale, 12 luglio 2019
I morti viventi della Russia sovietica
Venditori di papirosy si intitolava la poesia di Esenin dedicata ai besprizornye, i ragazzi di strada, i ragazzi randagi nella Russia sovietica alle prese con la Rivoluzione. Era il 1923 e romanticamente il grande, sfortunato poeta russo poteva ancora illudersi che i suoi «disperati ragazzacci» «pellegrini su luride strade,/ nel piacere di giochi malvagi» fossero «tutti ladri in allegria»... Toccherà a Majakovskij, nemmeno tre anni dopo, prendere atto che la poesia non poteva sconfiggere la realtà, il «sozzume di besprizornye:/ riserva senza fine di teppisti» «e il filo del coltello/ è rosso di sangue». «Mettete lo slogan: Lotta alla piaga dei besprizornye» diceva l’ultimo verso che riprendeva il titolo di quella che, a sua volta, Majakovskij si illudeva potesse essere letteratura militante, ovvero l’unico modo possibile per sconfiggere una piaga sociale, la sua trasformazione in problema ideologico-politico.
Il dramma della Rivoluzione e dei suoi cantori, riluttanti o entusiasti, era tutto lì, quell’essere «Noi – figli dei terribili anni della Russia» immortalato in un celebre verso di un altro dei suoi grandi cantori, Alexsandr Blok, ovvero il simbolismo metaforico con cui si cercava di sfuggire la realtà, «la generazione che ha dissipato i suoi poeti», come Roman Jakobson scriverà all’epoca non potendo dire la verità nuda e cruda sulla mattanza intellettuale che invece c’era stata. Termini come «terribile», «dissipazione» e, appunto, «besprizornye», ovvero i «figli del cuculo» di un romanzo di Il’ia Erenburg scritto negli anni Venti, servivano insomma per circumnavigare un continente tanto profondo quanto privo di pietà... Bisognerà arrivare al Dottor Zivago di Pasternak perché finalmente si prenda atto che «tutto quel che era metaforico è diventato letterale: i figli sono veramente i figli e i terrori sono terribili». Era una presa d’atto grazie alla quale era ora possibile contemplare l’orrore perché era caduta la maschera ideologica indossata per poterlo negare. Solo così si poteva capire perché, ancora nel 1935, il Soviet dei Commissari del Popolo e il Comitato centrale potessero da un lato annunciare la «liquidazione definitiva» dei besprizornye come problema sociale e dall’altro abbassare a 12 anni il limite d’età per l’applicazione di qualsiasi pena, compresa la pena di morte. Detto in parole povere, per eliminare il fenomeno dell’infanzia abbandonata e/o delinquenziale bastava trasformare per legge i bambini in adulti.
Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica (1917-1935) si intitola il bellissimo saggio di Luciano Mecacci (Adelphi, pagg. 274, euro 22) dedicato appunto a questo orrore novecentesco, l’immersione, grazie a testimonianze dirette e documenti d’epoca, nell’abisso umano di chi lo visse. Al confronto, gli sciuscià, i paisà, le Germanie anno zero dei film di De Sica e di Rossellini impallidiscono e si colorano di una retorica tenue e al fondo accettabile, la fame e la sconfitta, l’abbandono e la lotta per la sopravvivenza, il dover diventare grandi pur essendo e restando bambini. Siamo insomma sempre all’interno di un orizzonte storicamente comprensibile, persino spiegabile. Ciò che invece accadde allora in Russia riveste le sembianze di una catastrofe che da naturale si trasforma in ideologica, meglio, in una teologia ideologica, una sorta di sacrificio umano innalzato alla divinità-partito, alla sua logica inflessibile.
All’inizio ci sono i sette milioni ufficialmente registrati di orfani della Russia post-rivoluzionaria dei primi anni Venti, in fuga dalle case dove hanno visto morire i loro genitori o dove regna ormai la fame, in fuga dagli orfanotrofi dove di fame e di freddo letteralmente si muore, in fuga dalle colonie dove la violenza dei compagni si mescola all’indifferenza degli educatori. È come un popolo a sé, coperto di stracci, aggrappato alle balestre sotto i vagoni dei treni, addormentato nei cassonetti dell’immondizia, nei calderoni per l’asfalto ancora caldi di bitume. La fame e la carestia lo trasformano in un esercito di cannibali ambulanti, tanto da dover chiudere i cimiteri per evitare che i cadaveri più recenti vengano trasformati in cibo (ma no, ancora i comunisti che mangiavano i bambini? Ma sì, però bambini comunisti...).
In seguito, è la politica a prendere il posto della fame e della carestia. Lo fa costituendo un soviet «per la difesa dell’infanzia» e persino una «commissione per il miglioramento dell’infanzia». «Non saranno gli stranieri a sfamare i nostri bambini» dice il capo della Ceka Dzerzinskij, espellendo le associazioni filantropiche straniere, sciogliendo gli enti di beneficenza nazionali ancora privati. È la cosiddetta «Ceka dei bambini», orfanotrofi di fortuna, gremiti all’inverosimile: «L’aria nelle camere è terribile. Non ci sono gabinetti, i bambini fanno tutti i loro bisogni nelle camere, persino nei letti. Sono così impregnati di questo fetore che quando per caso si ritrovano all’aria aperta stanno male».
Quello che è un problema umano e sociale, «il mare di dolore infantile» di cui parlerà Anatolij Lunacarskij, si rivela al tempo stesso un problema politico, la messa in discussione delle capacità del nuovo Stato marxista-leninista a crescere i propri figli. Nel 1933, un Georges Simenon in viaggio fra Odessa e Batumi si imbatte in quella che la sua guida ufficiale Sonia definisce «una gramigna... Che cosa volete aspettarvi da dei figli di kulaki che vanno in giro da una provincia all’altra con la speranza di trovare qualcosa da mangiare? Ci sono delle case di rieducazione, ma scappano... Hanno già il vizio in corpo. Tra qualche anno sarà finito». Sonia ha ragione, commenta amaro lo scrittore: «Ancora qualche anno e ci saranno solo Sonie. E la Russia sarà un Paese formidabile!».
Il portare la maggiore età a 12 anni (dodici anni, avete letto bene) chiuse il cerchio e mise il lager al posto dell’orfanotrofio che non era mai stato in grado di funzionare. Come nota Mecacci, «l’esperienza maturata nelle grandi città, tra furti, prostituzione, risse e qualche omicidio, fu messa a frutto per sopravvivere nel nuovo girone infernale». In Arcipelago Gulag, Solzenicyn definirà il loro comportamento come «la legge della malavita». Gettati nella mischia di un mondo crudele, «entrano in quella lotta come un collettivo, una squadra. Germogli di socialismo? Influsso degli educatori? Ma cosa andate farfugliando! I marmocchi sono i giovani pionieri della malavita, fanno propri i precetti dei più anziani. Non considerano nessuno come un essere umano, all’infuori dei ladri anziani e di sé stessi! È questa l’idea che si sono fatti del mondo e vi si attengono!». Il paradiso dei lavoratori.