Sette, 12 luglio 2019
Intervista a Matteo Marzotto
«C’è stato un momento, dieci anni fa, in cui mi sono accorto che non mi stavo divertendo più. Avevo una grande esposizione mediatica, ero molto impegnato in azienda: ero esattamente dove volevo essere, facevo quello che sognavo di fare, ma in realtà mancava un pezzetto. Quasi subito ho capito che era quello spirituale, ma non dovevo farmi confondere da filosofie new age: era un richiamo di fede». Matteo Marzotto, 52 anni, gessato e camicia a righe bianche e rosse, ci accoglie nella casa di sua madre Marta, in centro a Milano. «Mia mamma aveva un’arte, quella di mischiare stili diversissimi e riuscire a trovare un’armonia. Ci rimase male quando le dissi che avrei arredato da solo la mia casa a Valdagno: per lei era una estromissione inspiegabile, ma alla fine rimase sorpresa perché era come l’avrebbe fatta lei: ho ereditato il suo stesso gusto».
Quinto figlio del Conte Umberto Marzotto e della modella Marta Vacondio, il manager è in una nuova fase della sua vita: dal 2016 è presidente del marchio di abbigliamento Dondup, dopo essere stato presidente di Valentino, aver rilanciato Vionnet ed essere stato amministratore delegato di Fiera di Vicenza. «Sono nato in una scuderia dove l’intrapresa si è sempre unita al sociale, soprattutto nella visione di mio nonno Gaetano», spiega. «Oggi più che mai mi è chiaro che umanizzazione non è sinonimo di buonismo e che si può fare impresa anche dichiarando di essere cristiani».
Quando è avvenuta la sua conversione?
«Durante un viaggio a Medjugorje e dopo l’incontro con Chiara Amirante, fondatrice e presidente della Comunità Nuovi Orizzonti. Con lei ho aperto la gamma della conoscenza: ho iniziato a documentarmi, ho fatto quello che in una famiglia religiosa si fa da bambini».
Nella sua famiglia la religione era assente?
«Ho sempre pregato, ma c’era una tradizione liberale in fatto di religione: chi di noi decideva di avvicinarsi alla fede doveva farlo autonomamente. C’era una tradizione di impresa forte: l’iperlavoro era il vero credo. Unito alla rettitudine: mio padre era tutto d’un pezzo».
Come è cambiata la sua vita?
«È un cammino che mi ha trasformato, ma non sono ovviamente diventato irriconoscibile: faccio un mestiere che è il massimo della mondanità, ora però ho capito che tutte le professioni acquistano una dignità o la perdono nella misura in cui le persone si comportano più o meno correttamente. Anche con i social ho fatto una scelta radicale: non ho nessuna interazione personale. Nella Comunità ci occupiamo delle nuove patologie nate con la iperconnessione: dipendenze che hanno superato persino quelle tradizionali».
Dunque il Matteo Marzotto di 15 anni fa non le apparteneva?
«C’era una motivazione personale forte: mi divertivo, ma la pressione era elevata. All’epoca di Valentino gli stakeholder chiedevano un trentottenne rampante alla guida. Certo avevo con me grandi manager: la storia dell’uomo solo al comando è una bufala, da solo non vai da nessuna parte».
Non ha avuto paura di essere poco “cool” dichiarando la fede?
«Se 20 anni fa qualcuno mi avesse detto che avrei portato un mio minimo contributo di evangelizzazione avrei riso, invece due settimane fa sono stato a Lourdes e ho parlato davanti a 3500 militari delle Forze Armate Italiane. Mi diverte che ci sia questa contrapposizione: la moda in fondo è una cosa estremamente umana, ci si veste per apparire davanti agli altri e coprire le debolezze».
Cosa la affascina della fede?
«Il fatto di offrire la sofferenza, che nulla viene perduto e che il bene rimane. Tra le mie letture preferite ci sono le vite dei santi del giorno: scopri persone normalissime che hanno moltiplicato i loro sforzi per stare al mondo».
Sua madre cosa avrebbe detto del nuovo Matteo?
«La mamma degli ultimi anni era una signora anziana che non voleva invecchiare e si stordiva di una vita folle. A 55 anni avrebbe certamente capito, aveva un tale amore per me e io per lei che ci appoggiavamo sempre, ma nessuno faceva sconti all’altro: su alcune cose l’ho criticata pubblicamente».
Cosa non accettava di lei?
«La separazione da mio padre, legittima ma sbagliata nei modi, con tutti gli scandali che ha generato. E poi non amavo la preferenza che accordava ad alcuni nipoti. Da mio padre ho preso un senso dell’equilibrio che mia madre negli ultimi tempi non aveva più. Diceva: “sono vecchia e posso fare quello che voglio”. Nel suo libro uscito postumo ha scritto: “nell’eventualità che io debba morire...”. Forse ci stava davvero provando, a non morire».
Lei però era il figlio prediletto.
«Non amavo le sue preferenze smaccate, ma è vero, ho beneficiato molto del suo amore, che ci ha permesso di dirci le cose in modo chiaro. Però proiettava se stessa su di me: più ero pubblico più lei pensava che fosse un valore aggiunto. Per me non lo era».
Le manca molto?
«Oggi molto di più che nei giorni giorni del lutto. Mi manca la mamma negli anni della sua maturità, fragile e intelligente, piuttosto che quella caciarona dell’ultimo periodo. Se guardo ai miei genitori posso dire che non sono stati molto presenti: nell’adolescenza mi è pesato. Sarebbe stato meglio avere più polso, dare senza controllo rende impreparati alla vita».
Il rimpianto più grande?
«Non lo dirò. Ma in passato ho guardato come un pazzo e non ho visto, ho spaccato il capello e mi è sfuggito l’insieme: mi è successo già due volte e non vorrei mi succedesse la terza».
La mamma le diceva “sistemati”?
«No, ma aveva una concezione delle mie fidanzate sgangherata. Pensava che andassero bene quelle che mi piacevano di meno e non vedeva quelle giuste. Ma amava molto Nora, la mia compagna».
Un ricordo di Marta Marzotto?
«Tutti pensavano che era di ferro e invece era di burro: aveva la capacità di rinascere dalle sue ceneri. La gente le si rivoltava contro? Lei partiva da zero. Per me era l’essenza del fashion: mi rivedo a cinque anni e c’è lei con le scarpe bicolore di Chanel e un abito lungo a fiori nero e bianco. La guardo e penso che è la più bella del mondo».