Il Messaggero, 12 luglio 2019
Perché l’autonomia non funziona
Certo, nella politica italiana di oggi può succedere qualsiasi cosa. Ma era difficile immaginare che le richieste di autonomia regionale differenziata di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna potessero essere semplicemente recepite dal Governo. Il motivo è semplice. Non si tratta di un allargamento di poteri amministrativi, di piccole questioni tecniche. Si tratta di un disegno politico di rilevante portata.
Le Regioni hanno chiesto competenze estesissime, con pretese crescenti con il tempo; e, assieme alle competenze risorse finanziarie molto maggiori rispetto a quanto oggi lo Stato spende in quei territori per svolgere le stesse funzioni. Un disegno che aveva due grandi vittime annunciate. Da un lato lo Stato nazionale, il cui ruolo sarebbe stato ridotto ai minimi termini; frammentato e disgregato, in caso di trasferimento di materie così ampie alle prime tre Regioni, e poi a seguire a tutte le altre che ne hanno fatto richiesta; con conseguenze devastanti sullo stesso ruolo di Roma.
Non va dimenticato che questo processo concentrerebbe poteri discrezionali ben maggiori rispetto ad oggi nelle mani delle classi politiche e amministrative delle regioni: una tentazione a cui specie nelle prime fasi ben pochi sembravano resistere, anche nelle regioni del Centro-Sud.
L’altra grande vittima erano e sono i cittadini del Centro-Sud: che avrebbero avuto diritto a risorse ancora minori per finanziare i grandi servizi pubblici; con scarti rispetto al Nord negli effettivi diritti di cittadinanza che non avrebbero potuto che ampliarsi molto.
A farsi carico di questi interessi sono, in questo momento, e nell’assordante silenzio delle opposizioni, i 5 Stelle. Inizialmente assai distratti, lontani dal tema (tanto da accettarlo nel Contratto di governo come unica questione definita prioritaria), paiono progressivamente essersene resi conto. Anche per la natura della loro rappresentanza parlamentare emersa dalle elezioni del 4 marzo: che a differenza della legislatura precedente, e dell’impostazione dell’agenda politica del Movimento, è assai sbilanciata verso il Mezzogiorno.
Si è provato in tutti i modi a distrarre l’opinione pubblica, a non divulgare i testi delle possibili intese; a dichiarare che tutti ne avrebbero tratto vantaggio. Si è divagato, portato il discorso su altro: dal costo delle siringhe alle virtù della responsabilità dei politici. Ma è stato sempre più difficile farlo di fronte all’evidenza delle richieste; dei fatti; dei numeri.
Solo l’altro ieri l’autorevolissimo Ufficio Parlamentare di Bilancio ci ha offerto un’analisi delle incongruenze, dei rischi, dei pericoli insiti nelle disposizioni finanziarie su cui stanno lavorando Governo e Regioni. Disegnate ad hoc per favorire le tre richiedenti a danno di tutte le altre, non a caso abbandonando i principi che sono alla base della legge 42 del 2009, che attua l’articolo 119 della Costituzione, anche in materia di finanziamento degli enti regionali. Basti pensare alle richieste sulla scuola di Veneto e Lombardia, su cui pare si sia consumata la rottura ieri. Fine della scuola statale, regionalizzazione dell’istruzione. Potere degli Assessori di stabilire le funzioni della scuola; dirigenti dipendenti delle Regioni, e professori reclutati d’ora in avanti su base territoriale, potestà assoluta di riconoscimento e finanziamento delle scuole paritarie. Con l’esplicito obiettivo con molti più denari di quelli che oggi spende il Miur di allettare gli insegnanti con il miraggio di incrementi di stipendio garantiti dalla contrattazione integrativa regionale. In base al principio che chi insegna in Veneto può guadagnare di più di chi insegna in Calabria, perché il reddito medio delle famiglie degli studenti è maggiore.
Si pensi, ancora, che Veneto e Lombardia vogliono che gran parte delle infrastrutture di trasporto nel loro territorio (inclusa l’Autostrada del Sole), che sono state pagate da tutti gli italiani, diventino patrimonio regionale, con i relativi canoni. La regione Emilia-Romagna ha una posizione un po’ diversa, ma sta accompagnando politicamente le richieste delle altre due senza alcuna obiezione.
Vedremo che cosa succederà nelle prossime settimane. Le oscillazioni della politica italiana non danno alcuna garanzia che le cose non possano cambiare, anche sull’autonomia differenziata, nelle prossime settimane. Chissà che cosa succederà del governo, che dopo aver portato a casa misure elettorali (reddito e quota 100) pare avere solo nell’approvazione della flat tax l’unico obiettivo strategico a breve termine (urne permettendo).
Ma soprattutto rimane la volontà di fasce ampie delle classi dirigenti politiche ed economiche del Nord più forte di andare per proprio conto. La crisi ha colpito durissimamente un Paese già in difficoltà; non si vedono scenari di consistente ripresa, almeno con la cura in corso, per l’intero Paese. E quindi si pensa a salvarsi da soli: a garantirsi il maggior potere possibile; condizioni finanziarie di favore; riparo, con ampie compartecipazioni garantite, da manovre di finanza pubblica e spending review. Non basterà frenare le velleità di questo progetto.
Si tratta, pazientemente, di rimettere insieme culturalmente, sentimentalmente, questo Paese; di contrastare quella vulgata crescente in questo periodo, perché accompagna le richieste regionali che vuole Roma paese dell’inefficienza o l’intero Sud come terra degli assistiti e dello spreco. Di frenare prima, e poi provare a contenere, vere e proprie pulsioni secessionistiche, nei fatti se non nel diritto, che sono uno degli sbocchi della disillusione e del rancore che covano nella società italiana.