Avvenire, 12 luglio 2019
Intervista a Franca Valeri
Entriamo nella casa romana di Franca Valeri, e lei è lì, al centro della stanza circondata da vecchi amici e nuovi conoscenti raccolti attorno al tavolo ad ascoltare le ultime da Il secolo della noia( Einaudi. Pagine 97. Euro 12,00). «Il mio ultimo libro», accarezza dolcemente la copertina che la ritrae in una delle pose involontariamente teatrali di chi è stata la prima e unica Signorina snob d’Italia. L’esilarante Cesira di «Signorina, cosa prende? Io ci dico una menta, perché, sa, la prontezza nell’ordinazione fa la signora». E poi la donna della porta accanto: «So’ la figlia de la sora Augusta, quella maritata Cecioni». La Franca nazionale ha incarnato l’universo femminile in ogni sua declinazione («la donna, che buffa bestiolina!»). Un universo che ha portato in scena dandogli voce in teatro, lo ha fatto cantare nelle decine di opere liriche delle quali ha curato la regia, gli ha dato il volto e lo ha recitato davanti a una camera da presa, e poi ne ha scritto e fissato il profilo in
Toh, quante donne (Lindau). Un lavoro lungo un secolo, quello di Franca Valeri, nata Franca Norsa, a Milano. Una splendida centenaria. «Pardon, 99 anni, li compio il 31 luglio. Qual è il mio elisir di lunga vita? Mangio cioccolato tutti i giorni, mi aiuta con la serotonina», replica sorridente la Franca a cui vanno comunque cent’anni, o quasi, di gratitudine, da tutti noi, specialmente dai giovani ai quali da Il secolo della noia ricorda: «La vita che non costa un po’ di fatica non è mai stata divertente... Il mondo era più bello quando ce n’era molta, di fatica».
Ma chi possiede un talento come il suo, forse, di fatica ne ha dovuta fare di meno per arrivare al successo?
Non direi, perché il vero talento è timido... Non ho mai pensato di essere un genio, ho semplicemente fatto il mio teatro “inventato” e mi è andata bene, nonostante sia arrivata tardi, e nel tempo delle maggiorate sono pure riuscita a fare l’attrice. Io non credo di possedere talento, semmai sono stata posseduta dal talento. Non mi sono mai montata la testa neanche quando ho ottenuto la stima e l’amicizia incondizionata di geni autentici, come Roberto Rossellini o il mio amico Luchino Visconti.
È stata la prima attrice italiana capace di far ridere. Quasi tutte le comiche poi si sono ispirate a lei.
Qualcuna preferirei che non si rifacesse a me. Ho amato tanto Anna Marchesini, meravigliosa. Luciana Littizzetto? Ci siamo conosciute e insieme abbiamo scritto un libriccino L’educazione delle fanciulle (Einaudi). Luciana è simpatica ma molto diversa da me, ha puntato troppo su un mondo che io detesto… quello della politica. Quello non è uno scenario che può ispirare una vera donna di teatro.
Chi è stata la sua prima fonte di ispirazione teatrale?
Il grandissimo Ettore Petrolini. Grazie ai dischi che mi regalava mio padre conoscevo tutte le sue battute e le canzoni ( GastoneoFortunello) a memoria. Una sera alla fine dello spettacolo qualcuno gli ha detto che avevo tutti i suoi dischi, allora lui mi ha preso in braccio e mi ha stretto forte forte a sé.
L’abbraccio dell’arte alla quale avrebbe consacrato la sua vita.
Una stretta così calda, quella di Petrolini, che me la ricordo come se fosse adesso. Per me conoscerlo era stata già una grande emozione. Sa, allora c’era il mito di chi andava in scena. Credo che oggi stia svanendo anche quell’aurea del-l’attore, non è più una figura mitica come lo è stata almeno fino alla guerra. La guerra purtroppo ha spazzato via tante cose meravigliose...
Aveva 19 anni allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Già, e me la sono “pappata tutta”, a Milano. Mio padre era ebreo e con le leggi razziali dopo la maturità, conseguita a 17 anni al liceo Parini, mi fu vietato di iscrivermi all’università. Vivevamo in via Rovello e sono scampata alla deportazione solo grazie ai miei gatti...
Racconti, signora Valeri.
Scesi in cantina per dare da mangiare a quei poveri mici affamati e quando sono risalita vedendo il portone di casa spalancato intuii: le SS erano venute a prenderci. Mamma era cattolica, ma allora bastava un “po’ di zio ebreo” per finire nel lager. Papà capendo la situazione si organizzò e con mio fratello riparò in Svizzera. Io e mia madre per tre anni non avemmo più loro notizie. Così come non si seppe più nulla di nostri cari amici ebrei e antifascisti... Li fecero salire su quel vagone chiodato partito dal Binario 21 della Stazione Centrale e non sono più tornati. È un dolore che mi porto ancora dentro, assieme al ricordo di tutte quelle brave persone che hanno aiutato la mia famiglia a salvarsi.
Come si salvò dalla noia dello stare sempre chiusa in casa per paura di essere deportata?
Leggendo tanto, principalmente il mio amato Proust. Papà aveva studiato a Parigi, alla Sorbona, e così disponevo di una ricchissima biblioteca di libri francesi. La lingua la imparai dalle
sorelle Dreyfus, le nipoti del famoso “Caso”. E poi appresi anche l’inglese: alcune frasi sbilenche sono finite anche nel parlato della Signorina Snob. Alla sera ascoltavo Radio Londra e continuavo a ripetere a tutti: «State tranquilli, questi mostri ridicoli presto ci lasceranno in pace». Ero sicura che sarebbe finita bene.
La certezza della fine del fascismo, lei racconta in Bugiarda. No reticente (Einaudi), di averla toccata con mano a piazzale Loreto, davanti ai corpi impiccati di Mussolini e della Petacci.
Ero andata a vederli, ma non per curiosità, ma perché avevamo sofferto troppo… Certo, si poteva anche evitare tutta quella vendetta, ma a vent’anni il sangue bolle, non ragioni più di tanto. E quel giorno comunque non ero né tri- ste né felice. La vera felicità invece, l’ho provata il 25 aprile 1945 nel vedere le camionette dei tedeschi che sfilavano dalla zona della Fiera e lasciavano Milano. Ecco, quello è stato il giorno più felice della mia vita, la fine della stupidità del male.
Molti dicono che il male e i nuovi fascismi si stanno ripresentando, anche da noi.
Io ricordo che alle prime elezioni dopo la guerra c’erano dei grandi uomini di Stato che ti davano affidamento, perché si erano formati nelle scuole di partito. Finite quelle, l’Italia ha prodotto solo dei politici modesti. E oggi si sentono alla tv dei “fascistelli” che non faranno la storia, e devo dire la verità, non mi fanno neanche paura.
Li considera dei «cretinètti», così come chiamava Alberto Sordi ne Il vedovo? Ah, quell’espressione buffa mi venne spontanea – sorride divertita – e piacque tanto anche a Dino Risi e rimase in copione. Con Alberto Sordi abbiamo fatto sette film, eravamo una coppia che stava bene insieme ma dopo l’ultimo ciak non ci si vedeva fino al giorno delle nuove riprese… Perché Sordi era un orso, non era mica quello che avete conosciuto sul grande schermo: aveva tre amici in croce e le sue amate sorelle. Però Alberto rappresenta la sintesi perfetta del comico: grande bravura scenica e intelligenza finissima. Sa – sorride – noi comici siamo più intelligenti rispetto agli altri attori.
Chi è stato il più grande comico italiano?
Totò. Con lui ho girato Totò a colori e Gli onorevoli.
Ma eravamo distanziatissimi nel film, non ci si incontrava mai. Poi l’ho conosciuto in privato e ho scoperto un gran signore, geniale ed estremamente generoso. Totò era un vero Principe.
Qui – sulla credenza del salotto – conserva una foto di Sophia Loren di quando è venuta a trovarla di recente.
È sempre un piacere rivedere Sophia, è una sorella, una attrice da Oscar grazie a un altro genio, Vittorio De Sica. Un mago, Vittorio. Aveva la capacità di trasformare gli attori, dal protagonista ai caratteristi, come la simpaticissima Tina Pica. Quel tipo di attori non ci sono più, ma perché non c’è più la libertà di inventare che respiravamo allora. E anche io mi considero un “tipo non rinnovabile”.
Fine della commedia all’italiana.
Certo, e per un motivo semplice: quel cinema era emanazione del teatro, oggi non più. Ormai la televisione ha rotto gli argini e i giovani pensano che dopo un minimo di visibilità si possono sentire già arrivati. Ma è una grande illusione, soltanto dei fantasmi.
A proposito, lei ha recitato anche in Questi fantasmidi Eduardo De Filippo che, a detta di tanti suoi colleghi, era un uomo cattivissimo.
Non è vero, Eduardo era un uomo che pretendeva il massimo da se stesso e quindi anche dai suoi attori, ma con me è stato buonissimo, anzi direi giusto. Un genio anche lui, con il vantaggio della napoletanità: perché è difficile che l’attore dialettale non sia un po’ stupefacente... Un po’ – si ferma e sorride – . Eduardo si poteva permettere di parlare pianissimo e di arrivare comunque all’orecchio dell’ultimo spettatore seduto in fondo al teatro.
Siamo arrivati in fondo anche noi a questo splendido incontro. Una curiosità, come ci si sente ad essere una milanese a Roma?
Una volta era stupendo, adesso Roma non possiede più quello charme della città antica eppure al passo con i tempi: l’hanno rovinata i recenti amministratori, e questo mi dispiace. Milano invece è molto migliorata, è stata ammini-strata bene, con amore. E poi c’è la Scala che è la mia seconda casa. Lì dentro ci sono tutti i miei ricordi più belli di bambina affacciata a un palchetto di amici... Ho assistito anche all’ultima Aida diretta dal grande Arturo Toscanini, subito dopo, da antifascista convinto, lasciò l’Italia. E mia madre quella sera alla Scala applaudiva e commossa ripeteva: «Bravo Maestro, fa bene!». Quanto ho amato tutto questo...