Qualche nome?
«James Gandolfini. Ho detto: adoro i Soprano, ma James è un gigante e questa è la storia di un uomo piccolo e curvo. Anni fa avevo pensato a John Turturro, che voleva lavorare con Toni. Sarebbe stato interessante, ma voleva recitare in napoletano e pronunciava le parole con l’accento americano tipo “mozzarrella”…».
Era il ruolo che ora interpreta Carlo Buccirosso.
«Sì: Carlo, Toni e Valeria Golino si sono consacrati alla storia. Toni ha dato umanità a quest’uomo che crede di aver vissuto tutta la vita e vive per il figlio. Un incidente lo riporta in pista e lui realizza che i valori per cui aveva vissuto erano inconsistenti. Toni sul set mi ha messo in crisi: ogni ciak era diverso e stupendo, non sapevo quale scegliere. Quando lo ha visto col naso posticcio la moglie gli ha detto “sai che stai meglio così?”. Non è uno di quei gangster iconici di Il padrino o Quei bravi ragazzi, per i quali scatta l’identificazione. Ma un gregario, un operaio del crimine che, come in certe situazioni raccontata da Cechov, ha compiuto azioni riprovevoli ma è fragile. La morte del figlio è la scintilla che lo conduce a una rinascita inattesa. Il protagonista segreto del film è Valeria, la donna che ha sempre amato Peppino: come Orfeo va all’inferno e si sporca le mani per tirarne fuori la sua Euridice. Questa è la traiettoria narrativa del film, che non somiglia al cinema italiano di oggi, quasi sempre figlio del pensiero debole».
Per ritrarre Napoli ha voluto Nicolaj Bruel, lo stesso direttore della fotografia di "Dogman" e "Pinocchio" di Matteo Garrone.
«È un genio: ho visto cinque fotogrammi segreti di Dogman e sono rimasto folgorato. Dopo ho visto anche immagini di Pinocchio: i suoi film sono diversissimi l’uno dall’altro. Per il nostro set Nicolaj ha rinunciato a girare il quinto episodio di Rambo , siamo in sintonia, ci piacciono le stesse prospettive storte, le profondità inattese, la luce notturna. Volevo una fotografia pittorica, per una Napoli deserta, cupa, metafisica. Un’ambientazione che fosse precisa per il noir, ma non quella visione livida di Gomorra o delle ultime serie, né quella un po’ caciarona dell’immaginario classico».
Ha fatto molti riferimenti alla nostra cultura pop.
«Come nel fumetto faccio uso dell’iconografia pop. L’idea era di costruire tanti sipari quante sono le culture sovrapposte di questa città: greca, romana, ostrogota, saracena. Per il mio killer Napoli è una casbah criminale, un labirinto di budelli in cui ha sempre sentito muoversi finché, tornando in azione, capisce di non conoscerla più».
Rispetto al romanzo cambiano i colori e spariscono i sogni disegnati come i fumetti anni Trenta.
«Era necessario che il film tradisse il libro, non volevo un cinefumetto. Ho scelto per lo schermo i colori saturi degli anni Settanta. Costumi, scene, fotografia, ogni dettaglio è studiato, ma l’errore è benvenuto. Toni ha due impermeabili: uno bianco in omaggio al Delon di Samourai (in Italia Frank Costello faccia d’angelo , ndr ) e al Bogart di Casablanca e uno nero "da guerra" ma scegliendo la stoffa cangiante è venuto fuori blu, molto più bello».
Nel film c’è la morale rovesciata rispetto ai fumetti americani. Il figlio legge dell’Uomo Tigre che scioglie nell’acido i ladri e il padre dice: "Per una cosetta del genere quello usa l’acido?". Gli spiega che "int’o pianeta ci sta un equilibrio biologico delicatissimo"...
«Il fumetto popolare degli anni Sessanta e Settanta in Italia era dominato dal fattore K: Kriminal , Satanik , Diabolik ... i nostri eroi erano tutti criminali incalliti e noi siamo cresciuti con loro, mentre il fumetto Usa era puritano, c’era un codice morale. Da noi si trasmettevano i valori sbagliati, ma con orgoglio: gli uomini in calzamaglia hanno fatto la tradizione del fumetto italiano. Quelli con cui Magnus, genio assoluto e grande amico si divertiva. Da bambino mi proibivano di leggere Kriminal , con mio fratello li lanciavamo nascondendoli sopra l’armadio di mia nonna per leggerli quando i nostri genitori erano fuori, altrimenti ci avrebbero riempito di botte. Viene da qui l’idea di raccontare questi piccoli criminali che dicono "gli americani non hanno capito niente, hanno gli eroi sbagliati …". Il film è attraversato da questi momenti di quello che gli americani chiamano humour nero. Il libro è stato pubblicato negli Usa in due edizioni con critiche molto generose, i recensori si compiacevano del fatto che non somigliasse alle cose di Tarantino, che fosse profondamente italiano, con le nostre auto, i nostri vestiti».
E il nostro cinema di genere...
«Sì, da Corbucci e Tessari... è stato divertente riprendere idee di quel cinema lì, non raffinatissime ma che mi piacciono tanto. I siparietti musicali con le sparatorie coreografate, le scene di Servillo e Buccirosso spalla a spalla, le pistole spianate… sono un po’ come la pernacchie di Fellini, una cosa volgare che però dà ritmo: la macchina cinema è anche questo».