la Repubblica, 12 luglio 2019
Perché siamo tornati analfabeti
Il 35 per cento degli adolescenti che hanno appena affrontato la maturità, uscendo quindi da un più che decennale cursus studiorum, non riesce a comprendere un testo di media complessità: leggono, ma non capiscono. I dati dell’Invalsi, che sconcertano e preoccupano (finalmente) il ministro della pubblica istruzione, non stupiscono affatto chi insegna nella scuola o nell’università. Né, soprattutto, chi abbia assistito alla parabola involutiva che negli ultimi cinquant’anni ha subito l’istruzione di stato, progressivamente svuotata di contenuti, ridotta a mera illusione, proposta al popolo quale sorta di oppio non più offerto da una religione ma imposto da un’ideologia, e in alcuni casi da una strategia, politica o partitica.
Fin dall’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, nel nome della cosiddetta democratizzazione della cultura, si assisteva a fenomeni bizzarri. Una collana, pubblicata da una casa editrice di partito, ideata e curata da un grande accademico nel nome di una “educazione linguistica democratica”, proponeva libri in cui non fosse usato che un numero limitato di vocaboli. La lotta al nozionismo, che aveva animato il Sessantotto e i suoi seguaci, nei licei di tendenza di quegli anni si prolungava nella condanna della complessità della parola. Era reazionario anche leggere i grandi romanzi dell’Ottocento, considerati “borghesi”. Non parliamo dei classici. Ancora oggi, discutendo della prospettata riforma del liceo classico, un colto cattedratico universitario ha affermato necessaria la lotta alla “logocrazia”, ossia alla prevalenza della parola nell’insegnamento, a favore, invece, dell’uso delle immagini.
È stato così che l’idea illuminista di un accesso al sapere aperto a tutti si è trasformata in un’ideologia di fatto oscurantista, alimentata da una gara demagogica tra i partiti della sinistra e dell’ala cattolica, che ha finito per produrre un nuovo genere di analfabetismo – condizione che, com’è noto, aiuta ad opprimere e dominare le masse, non certo a promuoverne l’autodeterminazione o la coscienza politica – la cui caratteristica saliente è convincere illusoriamente chi ne è soggetto di essere invece in possesso della cultura. Con risultati catastrofici, non solo in Italia. Secondo studi scientifici di recente pubblicazione il Q.I. dei giovani europei ha cominciato a calare proprio negli anni ’70 e si è ridotto da allora a oggi con una media di 7 punti per generazione. Non si sa apprendere e non si sa leggere, ma si crede di sapere e di sapere scrivere.
La rete è tutta un fiorire narcisistico di pseudoscrittori e di pseudosapienti che postano i loro scritti, spesso pastiches di frasi altrui malamente comprese e peggio assemblate, con la probabilmente sincera ancorché infondata convinzione di fornire un contributo proprio, in ogni caso con l’ambizione di porsi loro stessi come datori anziché ricettori di sapere. Ma incolpare i new media non solo è pavido, è sbagliato. Il loro cattivo uso non è causa ma effetto dell’illusione di cultura prodotta dalla mistificazione educativa dell’istruzione pubblica. Internet è potenzialmente uno strepitoso strumento di cultura. Centinaia e centinaia di migliaia di libri del passato remoto e recente sono ormai digitalizzati e disponibili a tutti, in una Biblioteca di Babele che rende il sapere immediatamente e universalmente accessibile in ogni angolo del mondo. Come ogni rivoluzione mediatica, a partire da quella della stampa nel XV secolo, la rivoluzione digitale può dare vita a un vero nuovo rinascimento. Ma, certo, ci vuole cultura anche per interrogare la rete. E, certo, i post e i tweet, con la brevità e irriflessività della comunicazione istantanea, hanno ridotto la soglia di attenzione, abbassato la capacità di concentrazione, ridotto al minimo la complessità di qualsiasi argomentazione, azzerato la sintassi quando non la grammatica.
Naturalmente, poiché il caso è il re della storia, come diceva Robespierre, non tutto questo è frutto di un complotto o di un preciso disegno politico neo-oscurantista. Altri fattori contribuiscono a rendere sempre più difficile il ruolo degli insegnanti. La società dei consumi, dopo avere esaurito gli status symbol umanamente accumulabili dai consumatori adulti, averli spremuti e indebitati, ha eletto l’adolescente, quando non il bambino, a suo capriccioso sovrano. Ancora più vulnerabile dei genitori alla seduzione consumista, lo vediamo idoleggiato dalla cultura dominante, assecondato nelle instabilità propria della sua età. Non stupisce che questo nuovo re di maggio, che questo tyrannos/ pharmakòs, per dirla con gli antichi greci, provvisorio tiranno, in realtà animale sacrificale da dissanguare e gettare via nel tritacarne del sistema capitalistico, sia sempre meno gestibile dai professori, i quali rischiano la persecuzione legale, quando non la violenza fisica, del ragazzo o anche dei genitori, per una punizione o un cattivo voto. Professori che a loro volta, indifesi, sottopagati, privati del rispetto della società, sono spesso demotivati nel loro compito. Quando non – e anche questo va detto – a loro volta marcati, per appartenenza generazionale, da una formazione inadeguata, o cooptati da meccanismi di reclutamento irragionevoli. Non è di oggi l’impossibilità di un reclutamento trasparente nei quadri delle docenze scolastiche e universitarie, che dovrebbero assicurare il primo filtro di selezione dell’élite. Il che non solo ulteriormente spiega i dati dell’Invalsi, ma anche l’incepparsi in Italia del meccanismo di ricambio che sempre più andiamo lamentando. La verità è che questo ricambio è assicurato anzitutto dall’educazione. Ma il diritto all’educazione rischia di trasformarsi sempre di più in un processo di diseducazione evidente agli occhi di chi è dotato, a ogni livello sociale, di buon senso. Un conoscente, di mestiere muratore, lamenta di avere fatto studiare il figlio. Non solo, nonostante i titoli ottenuti, è disoccupato. Ma, cooptato nel mestiere del padre, non riesce a farlo. «Quando lo porto con me, la sola cosa che vuole fare è dare la tinta. Hai voglia a spiegargli che prima il muro va preparato, rintonacato, scartavetrato, e solo dopo lo si può dipingere. Lui, che ha studiato, dice che non serve, e che comunque non gli dà soddisfazione». È una buona immagine di quello che è diventata l’istruzione pubblica: una mano superficiale di vernice su un muro non preparato, da cui la tinta velocemente si staccherà.