la Repubblica, 12 luglio 2019
Biografia di Cindy Sherman
Era il 1979, avevo ventiquattro anni e non sapevo praticamente nulla di arte e in particolare di arte contemporanea. Mi trovai davanti un numero della rivista Flash Art, la Bibbia per chi vuole capire cosa succede nel mondo dell’arte, e vidi un’immagine. La riproduzione di una foto in bianco e nero. Una ragazza di spalle sul bordo di una strada americana,con una valigia accanto: in attesa forse di un Greyhound, quegli autobus che attraversavano gli Stati Uniti da una parte all’altra. La didascalia diceva Cindy Sherman, Untitled Film Still #48(1979).
Fu la mia rivelazione sulla via di Damasco dell’arte contemporanea. In Italia erano gli anni di piombo, la mia generazione era immersa fino al collo nella palude della politica estrema. L’arte era una cosa per pochi, per borghesi, per ricchi. Anche se nel 1979 iniziavano a far capolino gli eroi della transavanguardia, Chia, Clemente, Cucchi con i loro dipinti.Infatti per me l’arte era il quadro, o magari la scultura. Ma la fotografia di Cindy Sherman mi diceva invece che l’arte poteva essere anche qualche altra cosa. E adesso, una sua grande mostra retrospettiva alla National Portrait Gallery di Londra, visitabile fino al 15 Settembre, racconta quarant’anni di una carriera eccezionale. Un percorso in cui l’artista ha declinato in tantissimi modi diversi la stessa idea, la rappresentazione dell’identità femminile.
Fin qui potrebbe sembrare femminismo doc. In realtà non lo è affatto. La Sherman crea semplicemente dei ritratti in cui appare lei stessa, ma sempre utilizzando sempre tipologie umane diverse: quasi sempre si tratta di donne, ma a volte ci sono anche uomini. Una Alighiero Noschese o, forse più attuale, una Crozza dell’arte contemporanea.
Ma i personaggi dei quali la Sherman ha indossato i panni non sono mai personaggi famosi; piuttosto, anonimi stereotipi di tipologie umane che vediamo passare sotto i nostri occhi ogni giorno. Oppure parodie, come nel caso della serie sui ritratti rinascimentali dove l’artista si traveste con costumi, nasi fintie seni posticci e che la fanno sembrare un attore shakespeariano di terza categoria.
Nata in New Jersey nel 1954, Sherman va a studiare al Buffalo State College, che agli inizi degli anni Settanta era un laboratorio eccezionale per l’arte contemporanea. Assieme ad altre artiste come Laurie Simmons, Louise Lawler, Barbara Kruger, diventerà parte di quella che viene definita la Picture Generation, ossia quella corrente artistica che lavorerà principalmente con la fotografia.
Stufa di provare a fare dipinti, che secondo lei non la portano da nessuna parte, Sherman nel 1976 inizia a scattare le sue foto in bianco e nero dei Bus Riders, cioè, traducendo liberamente, dei pendolari.
Sarebbe un errore pensare che le sue opere siano autoritratti. Infatti lei presta solo se stessa alla sua arte, come un’attrice farebbe con un ruolo diverso per ogni film. Certo nelle immagini e nel suo modo di pensare se stessa la Sherman getta i semi della cultura dei social: non a caso, è una delle poche artiste contemporanee della sua generazione ad aver abbracciato Instagram come un mezzo espressivo.
La maggior parte dei suoi ritratti se li è fatti da sola nel suo studio, utilizzando l’autoscatto. Solo ultimamente, in alcune delle sue opere, ha fatto ricorso ai mezzi digitali e a una tecnologia meno fatta in casa. Non sempre con gli stessi straordinari risultati del passato.
I Bus Riders, i Film Still, fotogrammi di film mai girati, i disastri e le favole, le attrici degli anni Trenta, i clown, le ragazze buttate sul letto, famosissima quella con il maglione arancione, sono entrate a far parte dei libri di storia dell’arte contemporanea.
Cindy Sherman è una delle poche artiste che ha attraversato quattro decadi senza soluzione di continuità, rinnovando senza scossoni troppo traumatici il proprio linguaggio ma sempre rimanendo rilevante e misteriosa al tempo stesso. Come tutti quelli che per mestiere impersonano altri, nella vita di tutti i giorni è una donna timida e normale, quasi invisibile, anonima come la gente dietro la quale si nasconde per i suoi scatti. Ma il fatto che la sua sia stata la prima opera d’arte contemporanea capace di restarmi impressa nella mente la dice lunga, sulla potenza del suo messaggio e del suo linguaggio. Forse solo il pittore tedesco Gerhard Richter ha avuto la stessa costante influenza sulle tante diverse stagioni dell’arte dei nostri giorni. In fondo sia Richter che la Sherman parlano della stessa cosa, la Storia. Richter forse di quella con la S maiuscola, la Sherman di quella, non meno importante, con la s minuscola. La storia fatta dalle persone che non sanno di far parte della storia. Gente normale, gente insicura, gente, o in una parola Noi.
Cindy Sherman in ogni sua foto ha provato a immaginare di entrare dentro l’immagin e diventare la persona qualunque, esplorando i desideri, le paure, le angosce di ciascuno di noi, ma anche la soddisfazione illusoria e a volte la bugia di piacersi. Come abbiamo fatto tutti e tutti continueremo a fare.
(1. Continua)