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 2019  luglio 12 Venerdì calendario

Contro le app per la ginnastica

Gli italiani, se la vogliamo dire chiara, sono un popolo di oversize, sovrappeso. Sempre di più. Alla verifica dei fatti, alla prova costume dell’estate, non ci sono più alibi: due su tre son sovrappeso, di ogni sesso ogni età; il terzo sta lì lì. Affiorano, è chiaro, sacche di resistenza: gli adolescenti con la «bellezza dell’asino» (che sfiorirà presto), i magroni genetici, i culturisti fanatici, ma il grosso è di una pinguedine trascurata, malsana eppure orgogliosa, peggio: indifferente, passiva. I poveri, la grassezza dei poveri, la chiamava Flaiano. È un rivolgimento sociologico, vale a dire economico: tramontata la smania salutista, la mania delle palestre degli anni Novanta, è come se il popolo italiano si fosse via via arreso, consegnato ad uno stato di crisi anzitutto psicologico, dunque antropologico: perché, a lungo andare, le crisi modificano un corpo sociale, lo trasfigurano di dentro come di fuori.Più rimbalzano gli appelli a mangiar sano, a fare sport, a sposare diete politicamente corrette, e più il popolaccio si squaglia: anche sul litorale la musica non cambia, poco «moscone praxis» e troppa compulsione smartphone, virgulti spalmati sui lettini cogli occhi inchiodati agli schermi e i polpastretti uniche frenetiche falangi che funzionano. Cominciò negli anni Ottanta, coi primi videogiochi ancora a muro, nei baretti della spiaggia, ma nessuno immaginava che saremmo arrivati dove non dovevamo arrivare. Ma lo fanno per noi, per tenerci sempre aggiornati, informati, connessi, insomma: vivi, grossomodo. Hanno anche inventato le app per la ginnastica, che ti contano i passi, i battiti del cuore, gli esercizi da smaltire, solo che se segui la app non fai altro, non ti muovi.
I risultati stanno sotto il sole. La sovralimentazione dei «poveri», la loro pigrizia è tipica della decadenza, è di quei paesi arrivati a fine corsa, incapaci di scuotersi, di reagire, abituati a subire qualsiasi accadimento o sconvolgimento, accettati supinamente come inevitabili. Violenti all’occorrenza ma mollicci, sempre di più, gli italianuzzi si riscoprono nella fame atavica del dopoguerra (basta osservarli all’assalto dei panini all’autogrill, le facce eterne del presociale) quando nell’arco di un decennio passavano dai problemi di malnutrizione a quelli di farcitura senza andar troppo per il sottile. È come se pensassero che, nell’imminenza di mutamenti già in corso, che li travolgeranno, tanto vale lasciarsi andare, rimpinzarsi e poi sparire.
I centri benessere, in effetti, appaiono in grossa crisi, soppiantati dai centri commerciali, i soldi residui si dirottano lì, reparto giocattoli tecnologici. Infanzia precocemente obesa, adolescenza petalosa, gioventù morbidosa, mezza età al capolinea: sarà pur vero che il tempo della vita s’è allungato, che la vecchiezza comincia a 90 anni, e per qualcuno mai, ma a vederli, a vederci caracollare per il bagnasciuga si ha l’impressione opposta, come di un ritorno al passato.
Non siamo solo noi: anche i turisti dal mondo, i nordeuropei, per dire, cedono, cedono. Poveri ma non belli, non più, per stare peggio credendo di star meglio. Poveri nella post modernità, meno di prima ma più soli e più disperati, più distonici e meno tonici. Meno disposti a lottare per qualcosa. E la faccenda, a dirla chiara, sembra irreversibile. Tutti si allarmano per il riscaldamento globale, nessuno sa rinunciare ai getti d’aria condizionata. Tutti protestano per la sedentarietà, nessuno sa rinunciare a dieci minuti di ipnosi da smartphone. Tutti invocano un recupero di certe sane abitudini perdute, ma poi la fatica fa orrore, anche solo per rimettersi un po’ in sesto.
Abbiamo perfino escogitato le percezioni, per sottolineare che ci sentiamo peggio di quanto non stiamo in realtà. Ma la percezione è fondamentale, strategica, è la scusa suprema, l’angolo da cui non uscire: vorremmo sempre il clima perfetto, il mondo perfetto, il destino perfetto, il dio perfetto, la divinità salvifica (Greta, Carola). Non li abbiamo e allora molti reagiscono con la ferocia dei bambini viziati. Nelle nostre percezioni, ci percepiamo sempre vittime, mai carnefici. Se uno gira per Roma, se ne accorge. Roma è l’epitome di una narrazione disperata, quella di un popolo cinico e rassegnato, che accetta lo sbando e impara a galleggiarci dentro. Nessuno prova nemmeno più a rimediare all’avanzata della mondezza, delle buche, di un degrado surrealista, ormai ci si scivola sopra e ce lo si fa scivolare addosso, non si protesta neppure più, non si aspetta Godot. Va così, che ce voi fa’. In fondo, si può vivere anche così, non è vero? E allora vive chi vive, farciti e scontenti, come se non ci fosse un domani che forse davvero non c’è. Quanti pensieri negativi che può ispirare una passeggiata sul bagnasciuga (schivando le pallonate di chi si crede CR7 ma ha un cervello formato Balotelli) con l’occhio disincantato del cronista.