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 2019  luglio 12 Venerdì calendario

Intervista allo chef Niko Romito

Niko Romito è nato a Castel di Sangro (Aquila).

Essere Niko Romito, vuol dire essere uno degli chef più ricchi di pensiero e carisma d’Italia e d’Europa. Uno di quelli di cui mai, nemmeno nel pissi pissi bau bau delle camarille gastronomiche, abbiamo sentito dire meno che meraviglie.
Essere Niko Romito vuol dire avere 45 anni, essere in un mondo di marchesiani, di bocusiani, di adriani (da Ferran Adrià) un completo autodidatta. Fino a 25 anni pensava di fare il promoter finanziario, figuriamoci. Ma oggi in tanti si dicono «romitiani».
Essere Niko Romito vuol dire avere le tre stelle Michelin più sperdute forse del mondo. A Castel di Sangro, Abruzzo di montagna, bisogna fare chilometri anche solo per avere un dubbio.
Essere Niko Romito vuol dire proporre un menu che scioriniamo come fosse la formazione dell’Italia campione del mondo nel 1982:»Affettato di manzo-Cavolfiore gratinato-Costine di agnello e tartufo nero pregiato-Pane-Cocomero e pomodoro...». Alla fine fanno i 252 caratteri (spazi esclusi) più densi di idee e commozione del panorama gastronomico italiano.
Essere Niko Romito vuol dire parlarci inseguendolo tra la sala, la cucina, il forno. Se sentite il fiatone, siamo noi che annaspiamo. Lui certo no.
Niko, partiamo dai tuoi piatti. Li definiremmo assoluti.
«Sì. La mia è una cucina quasi completamente senza grassi. Lavoro sugli estratti, sull’utilizzare varie consistenze dello stesso ingrediente. Sì, direi che è una cucina assoluta. Il che vuol dire che è una cucina molto a nudo, non posso nascondere gli errori come può fare chi pratica una cucina che può giocare con tanti ingredienti. Se da me un piatto è sbagliato si capisce subito».
I tuoi piatti non hanno decorazioni né salse. Perché?
«Io penso che la materia sia essa stessa estetica. Se il piatto è stato centrato non ci va nulla di più di quello che è funzionale. Se mangi il Cavolfiore, se mangi Cocomero e pomodoro, è tutto dentro al morso, non c’è nulla che tu debba andare a cercare al di fuori dell’ingrediente».
Ci colpisce la tua capacità di mettere al centro il vegetale.
«Tutto è nato nel 2012 con un carciofo. Ho iniziato a servirlo da solo nel piatto e mi guardavano come un marziano. Da lì ho iniziato un percorso, cerco di trattare il vegetale senza foglie, lavorando sulla masticazione per fare in modo che diventi un sostituto della carne e del pesce. Da me si può mangiare un menu vegetariano di otto o nove portare in cui anche gli onnivori come me non perdono nulla in termini di sapore».
Da chi ti rifornisci?
«Dal mercato locale. E poi abbiamo sette orti dove lavoriamo i prodotti che il mercato non ci garantisce sempre. Non siamo autosufficienti ma sperimentiamo e capiamo cosa cercare altrove. E poi l’orto ha una funzione didattica, per la mia scuola».
Ecco la tua scuola. O meglio, la tua accademia...
«L’idea della scuola è nata, per paradosso, proprio perché io non l’ho fatta. Io fino a 25 anni non avevo mai cucinato. Anni dopo ho deciso di creare io stesso la scuola che avrei voluto frequentare per avere tecnica e ragionamento».
Come fai a portare fin qui, a casa del Diavolo, chi vuole imparare a cucinare?
«All’inizio il progetto sembrava una follia. Venire a studiare a Castel di Sangro? E invece ora la scuola è un punto di riferimento. Tra l’altro credo che sia l’unica scuola che sia diventata impresa di se stessa. Non fa solo formazione ma spinge i ragazzi a metterci la faccia e la proposta. E trova loro lavoro».
Nei tuoi tanti locali...
«Sí. Ad Alt, agli Spazio Rivisondoli, Milano e Roma, da Pane, dai Bulgari di Shanghai, Pechino, Dubai, Milano. Ma da quando ho aperto l’accademia solo in Abruzzo i miei allievi hanno aperto dodici nuovi ristoranti».
Parliamo di pane. Tu sei il pane.
«Da me il pane diventa portata. È sempre stato importante ma lo è di più dal 2011, quando mi sono trasferito a Casadonna e ho dedicato uno spazio alla panificazione. Per fare il pane ci vuole spazio, attrezzatura, personale. Facciamo 7-800 kg di pane al giorno. Ma quello che mangi qui non è fatto oggi».
Ma come?
«Ma sì. Io sono contro il pane espresso. Il pane va stabilizzato, ci vuole tempo. È meglio se viene abbattuto e poi rigenerato. E non è che risparmiamo. Sfornarlo, abbatterlo, stoccarlo, rigenerarlo è una procedura lunga e costosa. Non solo: una volta rigenerato quello che avanza va buttato. Però così posso portare il pane ovunque: a Milano, a Londra».
Piaci a tutti, accidenti. Ai critici e al pubblico. Come fai?
«Il mio obiettivo è piacere a due livelli. Chi ha esperienza riconosce che dietro a quel piatto c’è una complessità incredibile, un’ossessione. Chi non ha esperienza ha un approccio semplice ma si diverte, gode».
Ma c’è un vantaggio nell’essere autodidatta?
«Dieci anni fa non avrei saputo che cosa rispondere a questa domanda. Ora invece so che non aver avuto maestri ingombranti ha fatto in modo che io avessi uno stile personale molto definito. La mia cucina o va o non va, ma di certo non la trovi da altre parti».