la Repubblica, 11 luglio 2019
La crisi fa bene al clima
Altro che volontà politica, impegno dei governi, senso di responsabilità dei cittadini. Nei rari casi in cui le emissioni di gas serra sono calate, è sempre stato per una crisi economica. Nella curva dell’anidride carbonica si può leggere la nostra storia. Un calo di emissioni nel 1973 coincide con la crisi del petrolio. Poi la curva riprende a salire. Una nuova flessione all’inizio degli anni ‘90 indica il crollo dell’Urss. È stato appena dimostrato, scrive Nature, che a contribuire al risparmio di CO2 in Russia fu la cessazione quasi totale del consumo di carne: l’allevamento richiede molte risorse. Dalla crisi globale del 2008 l’anidride carbonica si è ripresa solo l’anno scorso. Altro esempio: le emissioni dell’Iraq, a picco dal 2003, sono arrivate praticamente a zero nel 2007. Ma una guerra non può essere un prezzo congruo da pagare per evitare il cambiamento climatico. «Nemmeno una semplice decrescita o una recessione, se è per questo» commenta Marzio Galeotti, economista ambientale dell’università di Milano.
Ecco allora coniata una nuova espressione: disaccoppiamento. «È il nostro obiettivo. Vuol dire creare le condizioni per la crescita dell’economia e la diminuzione delle emissioni. Contemporaneamente» spiega Galeotti. La curva della CO2 deve smettere di seguire quella del Pil, se vogliamo combattere il cambiamento climatico. Ma come? Ci eravamo illusi che le rinnovabili avessero già centrato il bersaglio, fra il 2014 e il 2017. In quei tre anni l’economia mondiale aveva ripreso a crescere, ma le emissioni erano rimaste stabili. “Forse siamo a un punto di svolta” suggerirono alcuni esperti, pensando che il concetto di sviluppo sostenibile fosse finalmente diventato concreto. Illusione andata in frantumi nel 2018, anno che ha registrato una roboante rimonta dei gas serra emessi nel mondo.Eppure in alcune oasi del mondo i primi segni di disaccoppiamento cominciano a notarsi. «In California – spiega Galeotti – o nella British Columbia, provincia del Canada che ha introdotto la carbon tax. Anche l’Unione Europea ha dati abbastanza buoni. Negli Stati Uniti l’economia è cresciuta e le emissioni diminuite, soprattutto per merito dello shale gas». Si tratta di una fonte fossile, ma meno inquinante rispetto al carbone. L’ex presidente Obama si è vantato di questo risultato, frutto più che altro della scoperta di enormi giacimenti. E l’Europa, ottimo esempio di disaccoppiamento fino al 2017, ha iniziato a vacillare. «Non possiamo ragionare con dati di uno o due anni. Compito della politica ambientale è introdurre variazioni strutturali, capaci di produrre risultati nel lungo periodo. Gli incentivi alle rinnovabili sono stati onerosi per i cittadini, ma si sono rivelati una misura incisiva». Il disaccoppiamento, spiega Galeotti, per essere solido e duraturo deve realizzare almeno una delle due condizioni: «Ridurre l’uso delle fonti fossili, facendo ricorso a energie più pulite. Oppure ridurre la quantità di energia necessaria a realizzare un punto di Pil. Si parla in questo caso di abbassare l’intensità energetica. In entrambi i casi, la chiave per centrare l’obiettivo è la tecnologia». È questo il motivo, spiega l’economista, per cui il disaccoppiamento può essere prerogativa solo delle nazioni avanzate. Paesi come l’India hanno fretta di uscire dalla loro condizione di ritardato sviluppo, senza andare troppo per il sottile in fatto di inquinamento. E infatti lì le emissioni del 2018 sono galoppate: +4,8%, uno dei tassi più alti al mondo. «Se un paese è troppo impegnato a sfamarsi, non avrà certo risorse per l’ambiente», prosegue Galeotti. «Ma nel mondo la coscienza dei cittadini si sta smuovendo. Anche le grandi aziende si rendono conto che non si può andare avanti così. Resta un solo collo di bottiglia importante: la politica. Risolvere una questione che diventerà catastrofica probabilmente intorno al 2100 non sembra concepibile per i nostri governanti. Il loro orizzonte temporale non collima con quello dei cambiamenti climatici».