Professor Nordhaus, come mai economia e cambiamento climatico sono così strettamente connessi?
«Le attività economiche sono all’origine del cambiamento climatico. Le centrali elettriche, le fabbriche, le automobili, qualsiasi attività produttiva, qualsiasi cosa noi usiamo o possediamo produce emissioni di CO2 o di altri gas serra. Ma l’economia è anche parte della soluzione, perché siamo in grado di individuare strumenti per risolvere il problema. Uno molto semplice è quello di innalzare il prezzo delle emissioni di CO2».
Ci spiega il senso di questa misura?
«Oggi emettere CO2 non costa nulla, ma produce effetti il cui prezzo è molto elevato. La soluzione è rendere le emissioni di CO2 abbastanza costose da indurre una riduzione delle emissioni a da stimolare lo sviluppo di nuove tecnologie».
Quando però si parla di carbon tax, le persone e i politici sembrano più spaventati dalla parola tax che dalla parola carbon.
«Infatti è sbagliato usare il termine tassa. Perché il punto fondamentale è che non si vuole aumentare una tassa, ma aumentare un prezzo. È quello che succede già nella Ue, dove non c’è una tassa sulle emissioni di CO2, ma un prezzo regolato attraverso il meccanismo del cap and trade (ogni Stato ha un limite alle proprie emissioni di carbonio e i governi vendono permessi di emissione alle imprese che desiderano inquinare: tali permessi, tuttavia, possono essere scambiati in mercati secondari, cioè tra le imprese, ndr). L’altro strumento è la carbon tax, ma l’obiettivo è sempre lo stesso aumentare il prezzo delle emissioni di CO2».
A proposito di prezzo: alcune compagnie aeree offrono ai loro clienti la possibilità di ammortizzare le emissioni di CO2 associate al loro volo pagando un piccolo extra sul prezzo del biglietto: solo l’1% dei viaggiatori accetta questo costo aggiuntivo per l’ambiente. Cosa ci insegna questa vicenda?
«La lezione più importante è che per combattere il riscaldamento globale non ci possiamo affidare all’approccio volontaristico. Non basta il mio impegno personale, il suo, quello dei lettori di Repubblica o dei passeggeri dei voli aerei. Paradossalmente, non basta neppure quello di singoli governi che volontariamente riducono la CO2. Occorre invece l’impegno delle nazioni che insieme si accordano su meccanismi per innalzare il prezzo delle emissioni in modo da scoraggiarle su grande scala. È per questo che io propongo di fondare un Club del Clima».
Di che si tratta?
«Parto dal presupposto che finora gli accordi basati sul volontarismo hanno fallito. Il Club del Clima si ispira a modelli già esistenti, penso alla Ue o al Wto: i partecipanti prendono degli impegni e vengono sanzionati se non li rispettano. Nel caso del clima, gli iscritti al Club dovrebbero versare una quota e impegnarsi a porre un tetto alle emissioni di CO2: chi sfora paga una multa. Ma soprattutto il Club dovrebbe penalizzare economicamente chi decide di starne fuori, per esempio scoraggiando l’importazione di merci prodotte fuori dal Club e quindi con grandi emissioni di CO2».
Un Club di questo tipo può fare a meno di avere tra i suoi soci gli Usa?
«No, certo. C’è bisogno di un nocciolo duro composto da Stati Uniti, Unione europea, Cina, forse dall’India e dal Brasile. È molto improbabile che oggi l’America possa guidare questo processo, visto che alla Casa Bianca c’è Donald Trump, un uomo senza principi e che non si preoccupa dell’ambiente. Ma Trump non sarà presidente per sempre e quando lascerà lo Studio ovale sono sicuro che sarà sostituito da qualcuno che saprà ascoltare i climatologi, gli ingegneri, gli economisti, e che lavorerà per un accordo internazionale».
L’opinione pubblica ha l’impressione di essere di fronte a un bivio: continuare a inquinare conservando il proprio stile di vita, oppure ridurre le emissionirinunciando però ai comfort cui si è abituati. C’è una terza via?
«Il messaggio che vorrei dare, oltre al fatto che si deve aumentare il prezzo delle emissioni attraverso la carbon tax o il cap and trade, è che questo processo non è così costoso come si immagina. Negli ultimi vent’anni sono stati fatti molti studi sui costi di queste politiche: naturalmente dipende dagli obiettivi che si vogliono raggiungere, ma l’incremento della spesa oscilla tra lo 0,5% e il 5% distribuito su un periodo di 50 anni. Un impatto davvero molto basso sull’economia mondiale».
Cosa pensa del Green New Deal proposto da una parte dei Democratici Usa?
«È una esposizione retorica di aspirazioni, ma non è un progetto politico realizzabile».
Perché come dicono alcuni critici è troppo costoso per poter essere realizzato?
«Non solo. È come dire a una persona sovrappeso di cinque chili che li perderà tutti e cinque entro domani. Contiene molti buoni propositi, ma non meccanismi concreti con cui realizzarli».
Tuttavia chi lo propone sostiene che, con opportuni investimenti statali, la lotta al cambiamento climatico può diventare una opportunità di crescita economica, perché richiederebbe lo sviluppo di nuove tecnologie e la creazione di nuovi posti di lavoro.
«L’idea che una forte politica contro i cambiamenti climatici possa creare nuovi posti di lavoro è sbagliata. I nostri studi ci dicono che i tassi di disoccupazione non cambierebbero da qui ai prossimi 10 o 20 anni anche se decidessimo di fare investimenti per fermare il riscaldamento globale. Ma il vero problema del Green New Deal è che tratta il clima come se fosse una emergenza nazionale, che gli Usa possono risolvere da soli. Invece gli Stati Uniti sono una piccola parte del problema e possono contribuire alla soluzione, ma solo unendosi alle altre nazioni».
Le sue teorie dovrebbero guidare i politici. Cosa si sente di dire, invece, ai comuni cittadini?
«Suggerirei di prendere seriamente i cambiamenti climatici e di impegnarsi politicamente per sostenere gli accordi internazionali e i meccanismi che innalzino il prezzo delle emissioni».
E lei, professor Nordhaus, nella sua vita privata cosa fa per ridurre le sue emissioni di CO2?
«La cosa più importante che ho fatto è aver dedicato la mia vita a studiare questi argomenti e a cercare una soluzione. Ora partecipo a conferenze e incontro persone per sensibilizzarle sul riscaldamento globale. La vita privata: continuo a viaggiare in aereo, ho un’automobile, riscaldo la mia casa d’inverno e la rinfresco d’estate. Uso l’energia elettrica cercando di evitare sprechi, ma non soffro il freddo o la calura in nome della lotta ai cambiamenti climatici. Perché, ripeto, la soluzione non si può affidare a comportamenti individuali. Deve essere collettiva».