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 2019  luglio 11 Giovedì calendario

Intervista allo scrittore André Aciman

«Con il mio nuovo romanzo siamo nel Novantasei, dieci anni dopo l’estate in cui Elio e Oliver si sono innamorati», racconta André Aciman, parlando del sequel del suo bestseller, Chiamami col tuo nome (Guanda, 2007). La storia d’amore tra l’adolescente Elio e il ventiquattrenne Oliver, nella riviera ligure di metà anni Ottanta, era già un cult nella comunità Lgbt prima ancora che Luca Guadagnino ne ricavasse nel 2018 un film da Oscar (a James Ivory, per la miglior sceneggiatura non originale).
Aciman, 68 anni, è un uomo colto, studioso di Proust con cattedra alla City University di New York, dove abita da cinquant’anni. Figlio di ebrei sefarditi, nel ’65 lasciò l’Egitto per le persecuzioni del regime di Nasser. Da allora ha vissuto a Roma e a Parigi, prima di trasferirsi negli States. Arriva aRepubblica dopo una mattinata passata in centro, a Roma. Intanto è in arrivo il sequel di Chiamami col tuo nome , Find me , che sarà in libreria in America a fine ottobre per Farrar, Straus and Giroux.
Quanto è cambiato Elio nel nuovo romanzo?
«È sempre un bel ragazzo. Ha avuto donne e ha avuto uomini. Ora è un pianista e sta per fare una tournée negli Stati Uniti. È il momento in cui, nelle ultime pagine del primo libro, va a trovare il suo ex, Oliver».
È ancora giovane.
«Non ha le stesse illusioni che aveva prima, ma il romanticismo di Elio non è sparito. C’è una scena nel nuovo libro in cui sta passeggiando col padre nella villa al mare e insieme vanno sul posto in cui si ha baciato con Oliver una notte e dice: "Quando vedo questo muro, so che se voglio parlargli il muro mi risponderà"».
Guadagnino aveva annunciato di voler girare un sequel del film, ma lei non era d’accordo.
«Non è che non ero d’accordo, anzi, è che i personaggi devono invecchiare di dieci anni, o di venti. Diventa difficile avere gli stessi attori. Ma se Guadagnino decidesse di farlo, ne sarei comunque molto felice».
Lei è un accademico. Come hanno preso i colleghi il suo successo?
«( Ride, ndr ) Quando è uscito
Out of Egypt ( Ultima notte ad Alessandria , Guanda) nel 1995 mi facevano i complimenti, ma con disprezzo. Gli accademici non prendono sul serio il successo del pubblico: non lo facevo neanche io».
E adesso?
«Non parlo mai del mio lavoro da scrittore all’università. Anche se so benissimo che i miei studenti, mentre insegno Proust, pensano: questa è la persona che ha scritto la scena della pesca, quella in cui Elio si masturba con il frutto pensando ad Oliver. La scena è stata poi ripresa nel film di Guadagnino».
Si sarebbe mai immaginato per "Chiamami col tuo nome" un tale successo?
«No, non ne avevo la minima idea. Lo scrissi di getto, in tre mesi, mentre lavoravo a Le notti bianche . Non credevo l’avrebbero preso in considerazione».
Dov’è Proust nel romanzo?
«Dappertutto. Nel modo in cui Elio esamina se stesso, gli altri, gli sbagli che fa. E nello stile. Mi piace la frase musicale, lunga, perché quando si indaga su un sentimento non bisogna fermarsi: bisogna permettere al lettore di entrare nella mente del personaggio, così da poter dire: io sono Elio».
Quanto le sue esperienze personali sono confluite in lui?
«Non rivelo mai le mie esperienze personali. Posso dire che Elio, o il padre, esitano quando desiderano qualcuno, riflettono molto, vogliono capire quello che provano e si vergognano di provarlo. Nella mia vita c’è sempre stata l’indecisione, a volte anche il desiderio di essere indifferente alla passione, per non sperimentare il turbamento».
I suoi personaggi si esprimono in inglese, italiano, dialetto napoletano e romanesco, e si cita persino il greco. Nella versione di Guadagnino si aggiunge il francese.
«Il film mi ha parlato al cuore, perché a casa mia si usavano proprio il francese, la mia lingua madre, e poi l’italiano e l’inglese».
Cita molti grandi autori: Paul Celan, ad esempio. E tanti italiani: Carlo Levi, Leopardi, Tomasi di Lampedusa.
«E anche Jacopone da Todi. Nessuno sapeva chi fosse. Se la gente non capisce il riferimento, non fa niente. Vorrei un giorno fare delle annotazioni al romanzo per indicare tutte le mie citazioni. Per esempio, la scena in cui Elio sanguina dal naso l’ho presa dall’ Heptaméron che Margherita d’Angoulême, regina di Navarra, scrisse nel Cinquecento.
Montaigne lo faceva sempre, perché non potrei io?».
Conosce bene l’Italia. Dopo aver lasciato l’Egitto, la sua famiglia si trasferì a Roma.
«Avevo quattordici anni. Abitavamo nella zona dell’Alberone. Ogni volta che potevo prendevo l’autobus e andavo in centro a farmi il giro di tutte le librerie. Forse in futuro scriverò un memoir di quegli anni, ma non trovo la vena comica per iniziare a farlo: fu un periodo molto doloroso, non avevamo soldi».
Poi andò a Parigi.
«Sì, e quindi negli Stati Uniti. D’estate tornavo a Parigi, dove abitava mio padre».
Si definirebbe ancora un esule?
«Diciamo che mi sento un po’ perso nel mondo. Quando abitavo in Egitto non ero egiziano, non volevo neanche esserlo. Ma quando sono arrivato in Francia ho sentito la stessa cosa. E così in Italia e negli Stati Uniti, dove ho preso la cittadinanza. Mi sento un po’ smarrito, ma nella scrittura ritrovo le mie radici».
È mai tornato in Egitto?
«Una volta sola, nel 1995, per un articolo del New York Times . Ho ritrovato la mia Alessandria. Mi sono sentito più forestiero di quando lo ero quando ci vivevo. Esistevano ancora gli stessi ristoranti, la pasticceria dove compravamo i croissant, niente era cambiato, ma la gente era sparita: greci, italiani, armeni, non c’erano più. La cultura era completamente diversa».
Tornerebbe oggi?
«No. Sono ebreo e Alessandria ora è molto più musulmana del Cairo.
Anche se sarà pubblicato a breve in Egitto uno dei miei libri: non Chiamami col tuo nome , figuriamoci, ma Ultima notte ad Alessandria».