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 2019  luglio 11 Giovedì calendario

Nel manicomio di Tripoli

TRIPOLI – L’ospedale psichiatrico Alrazi di Tripoli è sulla strada di Gargaresh, il grande sobborgo a Ovest in direzione della Tunisia. Le mura sbrecciate che in passato hanno testimoniato guerre e battaglie oggi raccontano una nuova storia: Tripoli sta impazzendo.
L’equilibrio mentale dei suoi cittadini – donne, padri, mogli, miliziani, poliziotti – è messo a dura prova dal lungo conflitto. C’è l’uomo che ha dato fuoco alla casa del vicino a Suk el Juma ed è stato arrestato: «Tutti in famiglia dicono che era perfettamente normale, ma che dopo quest’ultima guerra civile non ha retto alla responsabilità di mandare avanti la famiglia». O il padre di famiglia che ha iniziato a imbottirsi di farmaci e a picchiare moglie e figlio. «Assistiamo a troppi casi. Inizio a pensare anche ai danni che questa guerra infinita sta procurando alla società civile». Il dottor Akram Farage è il primo psichiatra che incontriamo insieme al direttore generale dell’ospedale Mohammad Ghawar.
«Dopo una guerra – così come dopo una devastazione o un evento catastrofico come un terremoto o un’alluvione – i casi di malattie mentali incrementano esponenzialmente. Innanzitutto si risvegliano i casi che si erano stabilizzati: mancano le medicine e il nuovo contesto mette in difficoltà la rete familiare di sostegno. Poi ci sono le vere vittime mentali di questa guerra civile iniziata nel 2011. Abbiamo vissuto momenti di euforia, di esaltazione e poi di depressione perché ripiombiamo nella guerra che ritorna. E soprattutto siamo quotidianamente sopraffatti da difficoltà», dice Ghawar.
«La parabola tipica dell’impazzimento del padre di famiglia è questa: ogni anno hai meno soldi, i pochi che hai sono razionati dalle banche, che vengono presidiate dalle milizie, che ti fanno entrare a ritirare i tuoi soldi dal tuo conto dopo ore di coda solo se le paghi. Poi le code infinite per il carburante, la corsa per il pane e quella negli ospedali. Il sistema scolastico che salta di continuo, le lezioni sospese che lasciano i figli a casa o in strada. Salta la corrente elettrica e di conseguenza l’aria condizionata e i freezer con il cibo. Non dormi, pensi a un futuro che non vedi. E ti ammali», dice il dottor Akram.
Il capofamiglia non riesce ad assolvere ai suoi compiti, s’isola dalla famiglia, sfugge alla moglie. Entra in uno stato d’ansia o depressione. Quando peggiora, la depressione porta ad avere allucinazioni, ad ascoltare voci che non esistono, a vedere qualcosa dove non c’è. Ci sono anche casi di pazienti senza tetto che le famiglie prima isolano e poi rifiutano, non se ne occupano, espellono di fatto dal loro nucleo. «Chiamiamo le famiglie, diciamo loro di venire a riprenderselo, ma rispondono dicono che c’è la guerra, la scuola è chiusa, devono accudire ai bambini, non hanno casa perché è stata bombardata».
La malattia mentale è “contagiosa”. «Nella nostra struttura sociale le famiglie mantengono legami stretti anche quando i figli si sposano», spiega il dottor Ghawar: «Si vive tutti insieme e se un membro della famiglia si ammala destabilizza gli altri. Soprattutto adesso che i punti di riferimento sono saltati».
Il dolore più grave i medici di Gargaresh lo incrociano quando devono occuparsi di mariti contro mogli, genitori contro i figli. «Le violenze domestiche sono in aumento», spiega il dottor Ragheb Mabruk. «Ad Ain Zara il padre di un bambino autistico ha iniziato ad assumere Tramadol e cannabis. Sfuggiva a una famiglia che sentiva di non riuscire a gestire soprattutto perché a causa della guerra non riceveva più aiuti sanitari per il figlio. Si drogava e picchiava la moglie e il figlio si procurava auto-lesioni».
Il Tramadol, un antidolorifico, è un farmaco ricorrente da anni in Libia. Hanno iniziato a prenderlo in dosi massicce i ribelli feriti prima nel 2011 e poi nelle altre fiammate della guerra civile. C’è un Tramadol normale, venduto in farmacia. E poi c’è il Tramadol “libico”, che arriva dall’industria farmaceutica indiana grazie a un giro di contrabbando clandestino: hanno sequestrato pescherecci carichi di tonnellate di dosi, ossia milioni di pillole. Il Tramadol crea dipendenza: non rende “pazzi”, ma comunque malati.
C’è poi il grande capitolo degli ex giovani combattenti che a ondate la Libia ha bruciato nella fornace della guerra civile. A parte i centinaia di morti e i migliaia di feriti gravi, ci sono migliaia di sbandati mentali. «Non abbiamo statistiche precise, ma sono centinaia. Hanno sofferto di disordine post-traumatico da stress, hanno iniziato a prendere medicine per finire ad assumere droghe allucinogene». Il problema è che oggi in Libia tutti, dagli ex combattenti ai cittadini comuni, hanno a disposizione un’arma. In famiglia ci sono pistole e Kalashnikov, gli incidenti sono continui.
In una palazzina separata c’è il manicomio criminale. I libici lo chiamano “ malacamia “, una storpiatura della parola italiana. Qui il problema è innanzitutto per medici e infermieri. La dottoressa Samah Aiad Elmesallati, che dopo essere stata responsabile della sezione femminile adesso sovrintende al manicomio criminale, è stata picchiata e ha subito danni a un orecchio. Un infermiere ha perso un occhio. I malati sono gravissimi, violenti e pericolosi. «Alle sue spalle c’è un detenuto- malato: è un poliziotto, era di guardia al Centro Medico di Tripoli, ha ucciso un parente che voleva entrare a tutti i costi. Che ci siano troppe armi intorno a chi è mentalmente disturbato è una catastrofe». Magdi Alì, il capo degli infermieri, racconta le colluttazioni quotidiane con questi disperati. E poi sussurra quello che senza statistiche, è chiaro a tutti: «Stiamo diventando tutti pazzi, tutti… Siamo tutti danneggiati». C’è una sola speranza, una sola parola: «Pace», dice la dottoressa Samah. «È questa l’unica medicina, la pace».