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 2019  luglio 11 Giovedì calendario

Il primo automobilista sulla Luna

Il mondo celebra il primo uomo sulla luna. Solo che non era un uomo. Era un superuomo. Neil Armstrong. Comandante perfetto. Leader innato, non costruito. Semmai perfezionato nel ruolo. «Un piccolo passo per un uomo, un grande salto per l’umanità» la frase. Forse sua, forse no, forse scritta da altri, chissà, non importa. Frase terribilmente densa, bella, eterna, composta di parole che resteranno per sempre scolpite dentro di noi e i nostri figli e i figli dei figli. Solo che il mondo che omaggia e ricorda Neil Armstrong, Buzz Aldrin, Michael Collins, nomi mandati a memoria di generazione in generazione, non sa che nel farlo commette un errore: il primo vero uomo sulla luna arrivò due anni dopo di loro. Con tutti i suoi pregi ma anche difetti. Non superuomo dunque, ma solo uomo. In versione automobilista. Perché l’auto è una psicanalista che sa tirar fuori limiti e piccolezze umane. Al volante emerge sempre il nostro vero io. Che, ovviamente, essendo vero e nascosto è anche il nostro peggio. Accade perché non appena alle deboli e incerte gambe sostituiamo possenti ruote e potenti motori, tutto all’improvviso ci sembra alla portata e tutto sembra possibile. Anche seguire gli istinti peggiori. Per cui, sì, va bene celebrare il primo uomo sulla luna, il superuomo Armstrong, che fece un grande passo per l’umanità. Ma il degno rappresentante di gran parte di noi, il vero primo uomo sulla luna in quanto imperfetto, furbo, pasticcione, è un altro: l’automobilista dello spazio David Randolph Scott, per gli amici Dave. Anche lui fece un passo. Ma pestò qualcosa di sgradevole.
E dire che per gran parte della vita, Dave era stato superuomo. Texano, classe 1932, nuotatore di livello nei college americani dei primi anni Cinquanta, fissato con la matematica e le scienze, sempre il massimo dei voti, anche perché sennò gli avrebbe fatto un mazzo così il brigadiere generale Tom William, un John Wayne dei cieli, pilota da combattimento dell’aviazione militare, fra le altre cose anche suo padre. La passione per il volo era cosa di famiglia. Dopo il college, Dave andò all’Accademia militare di West Point. In poco tempo, l’aitante texano divenne pilota militare. Ma voleva di più. Gli avevano detto che per ambire ad entrare nel neonato programma spaziale gli sarebbe servito specializzarsi in Aeronautica. Dave lo fece: laurea in Scienze e laurea in Aeronautica-astronautica, conseguite non a Vattelapesca ma al Massachusetts Institute of technology, il Mit. Fu talmente bravo che i capi militari lo proposero per un dottorato, altro che aerei e stelle. Lui corse a Washington, da amici suoi, «ehi, un momento, ma state scherzando?». Non stavano scherzando però s’impuntò e lo accontentarono. 
In quegli stessi anni, un genio con tante idee in testa e qualche vistoso conto da regolare con la propria coscienza per certi missili volati qua e là per l’Europa durante la Seconda Guerra Mondiale, Wernher von Braun, stava progettando degli oggettini che sarebbero serviti al figlio del John Wayne dei cieli e a una manciata di altri avventurieri moderni, a compiere il grande balzo verso lo spazio. E non solo. Von Braun pensava ai razzi ma aveva già in testa l’automobile dello spazio. Solo che non sapeva come realizzarla. Soprattutto, come portarla fin sulla luna. Gli serviva delle dimensioni di una Fiat 500. Però, che diamine: la Nasa stava varando programmi dai nomi epici tipo Gemini, Apollo, come avrebbe mai potuto inserire il progetto Fiat 500. Impossibile. Von Braun lasciò perdere e lavorò solo ai razzi vettori, limitandosi, quando ormai l’Apollo 11 era quasi sulla rampa di lancio, a far presente che nelle successivi missioni sarebbe stato all’ordine del giorno dotare gli astronauti di un mezzo con cui percorrere maggiori distanze sulla luna. Altrimenti, addio grandi esplorazioni geologiche.
È a questo punto che un signore ungherese riceve una telefonata. Si chiama Ferenc Pavlics. Ha l’espressione genialoide di un direttore d’orchestra, è appassionato di modellini e ha una capacità innata nel semplificare cose e spazi. Lavora per la General Motors. Giusto il tempo di sollevare la cornetta e si ritrova nei laboratori General Motors che, in collaborazione con la Boeing, lavorano per la Difesa al progetto LRV: Lunar Rover Vehicle. La macchina spaziale. «L’idea mi venne guardando i modellini dei ragazzini» ricorderà, «il punto fondamentale non era fornire un mezzo per muoversi sulla luna, era portarlo sulla luna». Pavlics riuscì a progettare una specie di grande go-kart che si ripiegava e apriva esattamente come una sdraio da spiaggia con le ruote. Queste non erano di gomma ma fatte di una rete d’acciaio forellata che non lasciava accumulare sabbia. In assenza di gravità sarebbe infatti rimasta attaccata. Il Rover pesava 209 chili e al lancio era riposto in una vano esterno del modulo lunare. Occupava uno spazio di un metro e mezzo per cinquanta centimetri. Sulla luna, gli astronauti non dovevano far altro che tirarlo con dei cavi appositi e il fuoristrada si sarebbe dispiegato e aperto, ruote comprese, come fosse una scaletta fissata alla botola della soffitta. Il Rover fu pronto in diciassette mesi. Era nata la prima auto lunare. Non solo. Era nata la prima vettura totalmente a propulsione elettrica. Quattro motori da un quarto di cavallo su ogni ruota, alimentati da batterie da 36 volt, 100 km di autonomia, 12 km/h di velocità massima.
«Uahuuu», esclamò Dave. Poi sorrise e guardò bene il Rover con tanto di targa sul posteriore, LRV-1, Lunar Rover Vehicle 1. E chiese subito: «Ma quanto fa di velocità?». Benché avesse dedicato al volo l’intera esistenza, lo intrigava l’idea di diventare il primo automobilista dello spazio. L’amico e collega, più collega che amico, Neil Armstrong lo aveva preceduto. Adesso, era il 1971, toccava a lui. Gli era pure andata bene. Sarebbe stata la penultima missione Apollo. «Lui ha fatto il primo passo sulla luna» pensò, «io farò la prima sgasata». E mantenne la promessa, «uhauuu» fu uno delle parole che dal controllo radio di Houston sentirono più spesso mentre il Rover percorreva chilometri quasi sempre poggiando su una sola ruota a causa dell’assenza di gravità, un sesto rispetto alla Terra. Fece anche altri show, Dave. Come quando dimostrò che Galileo Galilei aveva ragione. «In mano ho un martello e una piuma, vediamo se in assenza in gravità cadranno insieme». Caddero insieme. Dopodiché, Dave salì sul suo Rover e sgasò via. Non si perse solo perché la prima auto dello spazio era dotata anche del primo navigatore satellitare. Cioè l’auto era sul satellite luna e in remoto, dal centro Nasa, recuperavano Dave e il compagno James Irwin, «occhio, sì, non vedi più nulla, sì, ti sei perso fra crateri e dune però se giri di qua e giri di là, magari torni al modulo... magari». 
Al figlio di John Wayne noi italiani dobbiamo essere grati non solo per Galileo Galilei. Dobbiamo a lui le uniche parole pronunciate nella nostra lingua sulla luna. Osservando delle rocce particolarmente luminose, ad un tratto Dave esclamò: «Mamma mia!». Di italiano, per la verità, fece anche dell’altro. Rientrato sulla Terra, si scoprì poi che aveva portato di nascosto sulla luna trecento buste e francobolli da annullare nello spazio. Un collezionista gli aveva dato 7000 dollari per la missione segreta. Li avrebbe poi rivenduti per 1800 dollari ciascuno. Proprio vero: un grande passo per l’umanità... ma pestando qualcosa.