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 2019  luglio 11 Giovedì calendario

Intervista a Emmanuel Carrère

«C’è una frase del filosofo Emmanuel Lévinas che mi ha colpito: Il cammino più breve per arrivare a se stessi passa attraverso gli altri». Emmanuel Carrère riflette, una mano poggiata sulla bocca, cercando in silenzio le parole giuste; poi ti guarda con quello sguardo bonario, un poco dolente, segnato dagli anni, e dice: «In fondo, la vita è soltanto un dialogo costante tra il nostro io, il nucleo più intimo di noi, e il resto dell’umanità: scrivere vuol dire raccontare questa interazione». A volte si arriva a identificarsi in personaggi crudeli, estremi, come Jean-Claude Romand – il protagonista de L’avversario – oppure a immedesimarsi in «personaggi picareschi, in avventurieri come Limonov»; o, nel caso del giudice Étienne di Vite che non sono la mia (un libro del 2009 appena pubblicato da Adelphi), in uomini troppo schietti e onesti da risultare temerari o – agli occhi di uno scrittore – straordinari.
Carrère parla in una Lignano Sabbiadoro gremita di turisti austriaci, dove ha ricevuto il Premio Hemingway assieme a Eva Cantarella, Federico Rampini, Riccardo Zipoli, Franca Leosini (che quando ha letto L’avversario ha detto: «Ah, ma questo è Storie maledette!»). Si dice onorato di avere ottenuto lo stesso riconoscimento concesso, l’anno scorso, a Annie Ernaux, una delle penne francesi che preferisce, assieme a Maylis De Kerangal e Michel Houellebecq. «A dire il vero, apprezzo molto anche la giornalista Florence Aubenas: dal suo libro ho tratto il film che ho appena finito di girare, Le Quai de Ouistreham, con Juliette Binoche e molte attrici non professioniste. Un’inchiesta straordinaria, scritta da una giornalista sotto copertura, che parla di precarietà, disoccupazione, con un grande senso di umanità: in Francia ha avuto il successo che meritava». Ora il film è in fase di montaggio, un processo che Carrère ritiene molto affine alla scrittura di romanzi, ma «senza la solitudine piena di angoscia» della letteratura.
Come sceglie i personaggi?
«Ah, è un mistero anche per me. Quando ho letto i primi articoli sul caso Romand, (il criminale che si è inventato una vita fittizia accumulando enormi debiti e, una volta scoperto, ha sterminato la sua famiglia, ndr) ho subito pensato: devo scrivere di questa storia. Allo stesso modo, quando il giudice Étienne ha cominciato a raccontarmi la sua vita, mi sono appassionato; poi ho capito che non avevo scelto io il soggetto, era stato il soggetto ad avere scelto me».
Romand è stato scarcerato il 28 giugno, dopo 26 anni. Pensa di rivederlo?
«Se lui vuole contattarmi, bene, ma io non cercherò certo di farlo. Mi sembra ancora incredibile che in 18 anni di sotterfugi e di menzogne nessuno abbia scoperto la verità su di lui. Se avessi portato quel libro a un editore, presentandolo come un’opera di finzione, mi avrebbe detto: bene, ma ora devi renderlo verosimile».
Lei non scrive opere di finzione dal Duemila, quando ha pubblicato, per l’appunto, L’avversario. La realtà è più interessante?
«Non è una scelta ideologica, non penso che il romanzo sia morto (io stesso sono un lettore di narrativa), mi sento soltanto più adatto a questo tipo di opere».
Dove ha pescato Limonov?
«Lo conoscevo già a Parigi, negli anni Ottanta. Poi, siccome andavo spesso in Russia, l’ho ritrovato dopo trent’anni e ricordo che fui molto sorpreso da ciò che era diventato; mi sentii ispirato, così scrissi un lungo reportage su di lui; non pensavo ancora di farne un libro. Molte pagine dopo, però, ho pensato che sarebbe stato interessante continuare».
Quindi il libro, in un certo senso, è venuto da sé.
«Sì, è così».
Il protagonista non si è molto riconosciuto, come mai?
«Lui sa bene che siamo due persone di diversa estrazione; ma è una persona intelligente e lo capisce bene: è meglio che Limonov sia stato scritto da uno come me, piuttosto che da un giovane nazbol (nazionalbolscevico, ndr) della sua cerchia. C’era una sorta di tacito accordo tra di noi. Io sono contento di avere scritto quello che spero sia un buon libro, e che è stato un grande successo, e lui di essere diventato più visibile. Credo che Limonov provi, a suo modo, una certa riconoscenza – anche se questo è un sentimento per cui non è molto portato».
Sua madre è un’importante studiosa di storia russa, Hélène Carrère d’Encausse, lei stesso ha origini georgiane: cosa le ha lasciato la sua formazione, nella scrittura?
«Sicuramente devo molto a grandi autori come Dostoevskji, Tolstoj, Cechov, ma forse anche a quel qualcosa di più estremo che c’è nella cultura russa – rispetto a noi, all’Occidente civilizzato».
Lei pensa di essere più estremo per questa ragione?
«Nella ricerca dei personaggi, reali ma romanzeschi, certamente».
Cosa pensa di Putin?
«Credo che il suo potere sia diventato ancora più assoluto, rispetto a quando ho scritto Limonov, nel 2011. Ma in questo mondo pieno di incognite, (e la mia è una provocazione), rappresenta un fattore di stabilità. In fondo è lui stesso a dire: o me o il caos».
E il presidente Macron? L’appoggia ancora?
«Ha moltissimi difetti, ma voto sempre per lui, perché ho paura delle alternative. Voi italiani sapete di cosa parlo, siete già nel post-Macron».
Facciamo un gioco le costò una relazione, inscenando un gioco erotico sul quotidiano Le Monde con la sua fidanzata di allora. Pentito?
«Sì ora ho deciso di non scrivere più cose che possano ferire qualcuno».
A che romanzo sta lavorando, adesso?
«Sono alle primissime fasi, è ancora nebbia per me».
Quale libro porterebbe sempre con sé?
«A sangue freddo mi piace molto: è una grande opera, che ha avuto molta influenza su di me; ma una volta che l’ho usato per i miei scopi, basta: non lo sfoglio più. Oggi sceglierei i saggi di Montaigne: è come leggere un amico, che puoi consultare in qualsiasi momento; e si tratta di un amico incredibilmente indulgente».