Corriere della Sera, 11 luglio 2019
Il cavallo di Mimmo Palladino
Roberta Scorranese
Ad un artista che nel 1977, di colpo, si lasciò alle spalle anni e anni di sperimentazioni concettuali con un dipinto tanto poetico quanto assertivo dal titolo Silenzioso, mi ritiro a dipingere un quadro, non si possono fare domande inutilmente cerebrali. Per Mimmo Paladino un cavallo è un cavallo è un cavallo. E quella creatura equina fatta di sabbia che da oggi campeggia tra i templi del Parco archeologico di Paestum «è un cavallo e basta», ride l’artista nato a Paduli (Benevento) nel 1948.
Però, maestro, non può negare che la sua ricerca ha più volte intrecciato epica e mito: cavalli, cavalieri, corazze.
«Questo è vero. Ma per un artista spesso l’ispirazione nasce da cose minime. Qualche volta dal caso, qualche volta, perché no? anche dalla banalità. L’arte è molto più semplice di quel che si pensi e gli aloni di solennità che a volte ammantano le opere mi fanno sorridere».
Ma il cavallo è fatto di sabbia di Paestum e Paestum si chiamava Poseidonia, da Poseidone, il dio del mare e dei cavalli: si fa due più due.
«Le piace questo accostamento? Lo faccia pure. Io gliene suggerisco un altro ancora: è un cavallo di sabbia che si rifà a Borges e al suo Libro di sabbia: apparizioni, racconti fantastici, figure evocative».
Borges, Joyce, Lévi-Strauss. Lei si è spesso confrontato anche con i classici moderni.
«Mi affascinano le potenzialità espressive del linguaggio. Tutto quello che scompagina e che rompe le regole».
E pure il suo sconfinare in attività differenti tra loro è un modo di sparigliare le carte?
«Sono curioso di scoprire tutto quello che si può fare con un mezzo, qualsiasi esso sia. Pittura, scultura, cinema, musica. Tutto è interessante per chi conserva una dimensione artigianale dell’arte».
Torniamo ai suoi «cavalli arcaici», per citare Arthur Danto. Lei ne ha installato uno anche in una città novecentesca come Brescia.
«Ma io sono un ammiratore di lunga data dell’architettura razionalista. A Brescia ho voluto leggere, seppur senza citazionismi, i materiali costruttivi della piazza e degli altri luoghi. Piacentini e gli altri fecero un grande lavoro».
La complessità
Gli aloni di solennità
che a volte ammantano le opere mi fanno sorridere, le cose sono più semplici
Tutti ricordano la Montagna di sale, con quella mandria equina che affondava nel biancore salino.
«Ma quella era un’opera realizzata a Gibellina, come scenografia della Sposa di Messina di Schiller. Poi ha girato un po’, questo è vero, da Napoli a Milano».
Lei non ama le etichette. Però è stato tra i primi artisti a intuire, undici anni fa, il fenomeno dell’immigrazione come «tema» sociale: penso alla Porta di Lampedusa, monumento all’accoglienza.
«Non faccio monumenti».
Allora diciamo «porta simbolica», un invito a entrare e non un atto di chiusura.
«Guardi, non è per smitizzare il mio lavoro, ma la cosa è stata molto meno complessa: quell’opera mi era stata chiesta. Non sono stato un lungimirante né, come artista, ho anticipato la realtà. Perché non accettare il fatto che un artista sia solo uno che ha un’idea, che esegue qualcosa, che ha una intuizione e che la persegue studiando un buon materiale e un buon procedimento? Se poi l’opera riesce porta con sé il suo naturale significato. Per quello che mi riguarda, se dovessi trovare una sorta di “filo” che unisce le mie opere direi che ogni cosa che faccio tende ad mettere l’uomo al centro. Una specie di interesse per la figura umana, per la sua storia, il suo destino, le sue peculiarità. Ecco perché, ad Arezzo, ho voluto rendere omaggio a Piero della Francesca e alla sua profonda ricerca umana».
Che cosa la annoia?
«Se mi annoiassi mi sarei già ritirato. Ho sempre voglia di imparare a fare qualcosa».
E che cosa le fa paura, oggi?
«Una sola cosa: il finire per ripetermi. Ho visto troppi artisti già morti pur essendo ancora vivi».
Ispirazioni
Si rifà a Borges e al suo “Libro di sabbia”: figure evocative, apparizioni, racconti fantastici...
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Caterina Ruggi d’AragonaEra finito in un capannone di Fisciano, nel Salernitano. Ma non ha mai smesso di nitrire, ribellarsi. Il cavallo di sabbia realizzato da Mimmo Paladino nel 1999 per Paestum ritorna oggi a Paestum. «Si era trovata una soluzione di emergenza – spiega Gabriel Zuchtriegel, direttore del Parco archeologico di Paestum – quando il Museo dei Materiali Minimi perse il suo spazio espositivo, sul cui tetto era montato il cavallo. Assieme alla curatrice del museo Nuvola Lista abbiamo deciso di riportarlo qui, dentro al parco archeologico, per richiamare una riflessione sul rapporto tra monumenti antichi e paesaggio presente. Ricordiamo la saggezza della cultura antica attraverso un contemporaneo che non è intrusione, ma serve a tirare fuori quello che non vediamo più».
L’operazione non passa inosservata. «Non portiamo Mimmo Paladino in un angolino, ma nello spazio tra i due templi principali del santuario meridionale, la cosiddetta Basilica e il Tempio di Nettuno. Lì in mezzo, il cavallo ci ricorda che noi cerchiamo di tutelare un bellissimo paesaggio di rovine che però non è il paesaggio antico: i templi di Paestum nell’antichità erano circondati da doni votivi, statue, piccoli edifici, altari, case e il resto della città», spiega Zuchtriegel. Che rivendica un doppio legame, materiale e storico: «Il cavallo di Paladino è fatto con la sabbia di Paestum. E Paestum è la città di Poseidone (originariamente si chiamava Poseidonia), dio del mare e anche signore dei cavalli, soprattutto quelli selvaggi, simbolo di una forza naturale primordiale che è per l’uomo risorsa e pericolo. Come il mare, che oggi può essere trasformato in una minaccia dai cambiamenti climatici». Temi cari al direttore, perché uno studio pubblicato l’anno scorso su «Nature» ha inserito Paestum tra i 42 siti Unesco sul Mediterraneo a rischio scomparsa entro il 2100. «Già i Greci fecero una bonifica e impararono a gestire l’acqua. Poi il livello del mare si è innalzato di nuovo. Ora però i cambiamenti sono più rapidi e pericolosi. Perciò abbiamo affidato ad archeologi, scienziati e artisti un’analisi del rapporto tra Paestum e l’acqua, con un video-mapping sui templi per una mostra del prossimo autunno», annuncia il direttore. Un accordo con la Regione Campania e con il Museo Madre porterà a Paestum altri artisti.
Lo studio di «Nature»
Paestum è tra i siti mediterranei Unesco che potrebbero
sparire entro il 2100
D’altronde Paestum è pioniere nel dialogo tra antico e contemporaneo: nel 1968, l’allora soprintendente Mario Napoli commissionò all’artista Carlo Alfano un’opera che doveva dialogare con le pitture antiche della Tomba del Tuffatore. Già all’epoca storsero il naso, tanto che fecero passare l’intervento come arredamento di giardini.
La città scoperta nel secolo dei Lumi, quando la grecità sembrava off limits, con le polemiche ha sempre convissuto. «Il viaggio a Paestum non vale la pena», disse l’architetto inglese Lord North nel 1753. «Non corrispondeva al canone barocco di arte classica: troppo semplice, per alcuni rozza. Per altri, proprio per questo unica. Molo diversa – sottolinea il direttore – da Pompei e Ercolano: Paestum è una città greca che muore lentamente per impaludamento e in effetti non muore mai, perché i suoi templi non sono stati ricoperti da lapilli». Unica e appartata, perché non facilmente raggiungibile. «L’isolamento l’ha preservata dai massacri edilizi, ma porta ancora piccoli numeri». Dai 300 mila visitatori del 2015, al primo mandato del direttore tedesco, a 430 mila del 2019.