il Giornale, 10 luglio 2019
Francesco Saverio Borrelli sta morendo
Gli ultimi bagliori di una stagione che ha cambiato l’Italia combattono per non spegnersi nella quiete di un letto al secondo piano dell’Istituto dei tumori di via Venezian. Un uomo di ottantanove anni viene accudito con cura e dolcezza. Accanto, spesso, una figlia che gli tiene la mano.
Francesco Saverio Borrelli era già nel pieno della maturità quando il suo nome divenne celebre in tutta Italia: in questo simile a un altro grande vecchio le cui condizioni stanno anch’esse facendo vivere giorni d’ansia, Andrea Camilleri. Nel 1992, quando l’esplodere dell’inchiesta Mani Pulite catapultò il palazzo di giustizia di Milano al centro dell’attenzione internazionale, Borrelli era quasi sconosciuto ai più. Eppure aveva già alle spalle una lunga storia di magistrato. Anzi: di magistrato d’eccellenza. Perché era, professionalmente parlando, membro di una elite assai ristretta: quella dei vincitori di concorso, i giudici che avevano progredito in carriera non solo per anzianità ma (fin quando questo restò possibile) superando selezioni interne di leggendaria difficoltà. Solo così si spiega il suo arrivo alla testa di uno degli uffici giudiziari più delicati del Paese, da cui governò da direttore d’orchestra la rivoluzione che avrebbe sepolto la Prima Repubblica.
La lotta di Borrelli avviene in silenzio, lontano dai riflettori. Gli stessi vertici dell’Istituto dei tumori hanno appreso ieri che nell’hospice, il reparto delle cure palliative, si stanno occupando di un paziente di tanto rilievo. Non ci sono stati comunicati ufficiali, nessun bollettino medico ha tenuto aggiornato il paese sulle condizioni dell’uomo che per molti mesi ne ha deciso le sorti in una fase cruciale. L’uomo che secondo molti, se solo lo avesse voluto, avrebbe potuto essere destinato, nel disorientamento della classe politica in quella fase convulsa, anche al Quirinale.
Borrelli non ha mai raccolto quelle lusinghe, non per modestia ma semmai per il sentimento opposto. Nel suo dna – pienamente ereditato dal padre Manlio, che a Milano fu presidente della Corte d’appello – è radicato in profondità un senso di superiorità della giustizia, e dell’apparato che la incarna, sulle altre istituzioni dello Stato. Darsi alla politica, anche nei ruoli più alti, sarebbe stato un passo indietro: non solo durante la carriera ma anche dopo, a toga deposta, come fecero invece due del suo pool, Antonio Di Pietro e Gerardo D’Ambrosio. In lui c’è la convinzione, forse non infondata, che anche gli atti compiuti da un giudice in pensione siano rilevanti, specie se presuppongono lo schieramento in una parte politica, gettano una luce discreditante anche su quanto fatto in precedenza. Non a caso dopo essere andato in pensione, nella fase in cui molti suoi colleghi inseguono visibilità e incarichi, l’unico posto che ha ricoperto è stato il più neutro di tutti, la presidenza del Conservatorio, in omaggio alla passione per la musica che in lui viene subito dopo (se non alla pari) con quella per il servizio in magistratura.
L’ansia di queste ore è mitigata da una certezza: il fisico è forte, indubbiamente. Dopo il pensionamento Borrelli ha giurato di non rimettere più piede in tribunale, «quando certi ex colleghi me li ritrovo in corridoio mi viene da pensare: questo non sa come tirare l’ora di pranzo», scherzava. Fece eccezione solo per cerimonie cui non poteva mancare: la camera ardente di D’Ambrosio e di Manlio Minale, procuratore generale; e l’insediamento a Procuratore di Francesco Greco, uno dei suoi boys dell’epoca di Tangentopoli, cui diede così la sua benedizione. In quelle occasioni è apparso così tonico che il commento fu il solito: «Borrelli non invecchia mai».
Invece è invecchiato anche lui, e i colpi lo hanno raggiunto minandole la resistenza. Così l’ansia di questi giorni è anche, inutile negarlo, venata da una rassegnazione di fondo. Ci sarà tempo in futuro per una lettura critica e approfondita della stagione di Borrelli e della sua figura.