il Fatto Quotidiano, 10 luglio 2019
La maledizione di Pinocchio al cinema
Ne ha infilzati più il naso che la spada. Naso a lunghezza variabile, e sotto le proverbiali gambe corte. Tra mille bugie, una verità: chi tocca Pinocchio muore. Artisticamente parlando, si capisce.
La creatura di Carlo Collodi ha ruolino di marcia da serial killer, di quelli che uccidono con uno sguardo: il nostro, che ci ostiniamo a gettargli addosso. La coazione a ripetersi, ossia a riadattare, accomuna grandissimi e meno illustri, stranieri e italiani, nella crociana (Benedetto) constatazione che “il legno, in cui è tagliato Pinocchio, è l’umanità”. Ci cascò persino Stanley Kubrick, di cui A.I. Artificial Intelligence “avrebbe potuto essere la più grande opera”: parola di Steven Spielberg, che alla morte del collega subentrò nel progetto. Ne Le avventure di Pinocchio (1883) Kubrick aveva individuato l’androide per antonomasia e, per l’interposto racconto di Brian Aldiss Super-toys Last All Summer Long, tra fine anni Ottanta e Novanta briga per portarlo sul grande schermo: l’avrebbe fatto dopo Eyes Wide Shut, ma la morte decise diversamente. Sintesi fantascientifica e vieppiù mitica di Pinocchio e Frankenstein, la fiaba filosofica troverà riparo davanti alla macchina da presa di Spielberg: nel kubrickiano anno 2001, A.I. Artificial Intelligence incassa 235 milioni di dollari a fronte dei 100 di budget di sola produzione, una miseria, ancor più per gli standard di Steven.
Le critiche non leniscono, bensì amplificano il problema. Spielberg, in fondo, se lo poteva permettere, meno, assai meno, Francesco Nuti, che pure quando s’accosta al burattino è all’apice del successo: può tutto, e gli danno tutto, tredici miliardi di lire. A metterli sul set Mario e Vittorio Cecchi Gori, la cifra è pressoché fantasmagorica, però insufficiente: OcchioPinocchio ha il destino nel nome, pardon, nel titolo, con cui l’attore e regista toscano riscrive il testo pedagogico-iniziatico di Collodi. Location negli Usa, beghe infinite, dissesti finanziari, i miliardi saliranno – sottostima – a venti, di cui due messi dallo stesso Nuti: con un anno di ritardo, esce in sala nel Natale del 1994 e fa male, anzi, peggio. Quattro milioni. Ci rimettono tutti, soldi, certezze e futuro, e c’è chi non si riprenderà.
Il burattino ha mietuto altre vittime, forte del suo attributo più infingardo: aspirazionale. Pinocchio non è promessa di felicità, ma viatico di grandezza, meglio, di ulteriore grandezza: per afferrarlo si alzano tutti sulle punte, e finiscono per perdere l’equilibrio. Se quella vecchia ha avuto Cleopatra e la New Hollywood I cancelli del cielo, il nostro più sontuoso fallimento è proprio OcchioPinocchio, eppure Roberto Benigni non ne fa avvertimento, bensì trampolino.
Come e più di Nuti può avere tutto, e prende lo stesso: l’exploit agli Oscar e al botteghino de La vita è bella per comburente, il burattino per combustibile. Pinocchio, anno di disgrazia 2002. La Fata Turchina è Nicoletta Braschi, Lucignolo Kim Rossi Stuart e il Gatto e la Volpe i Fichi d’India, in una scriteriata replica ai Franco e Ciccio de Le avventure di Pinocchio, l’inarrivabile sceneggiato di Luigi Comencini (1972). Là il cinquantenne Nino Manfredi dava regola aurea a Geppetto, qui il cinquantenne Benigni si vuole burattino fuori tempo massimo. Vincenzo Cerami e Nicola Piovani non bastano, Roberto prende fischi per fiasco, i Razzies (le pernacchie hollywoodiane ai peggiori della stagione) anziché le statuette. Tre anni più tardi si scaverà la fossa, altrimenti detta La tigre e la neve (2005).
Nel 2012 Enzo D’Alò riprova la strada dell’animazione, aperta nel ’72 da Giuliano Cenci con il disastroso Un burattino di nome Pinocchio, e già tocca mettersi in fila: la prima nostrana trasposizione risale al 1911, per la regia di Giulio Antamoro, con protagonista il francese Ferdinand Guillaume, alias Tontolini o Polidor. Mezzo secolo più tardi Nelo Risi volle Carmelo Bene, con Bardot, Cardinale e Lisi potenziali Fatine e Totò Geppetto: la morte del principe De Curtis, 1967, suicida il film.
Oltreoceano rimane indelebile il cartoon Pinocchio (1940), il secondo classico della Disney: la ventilata versione live-action ha fatto però perdere le proprie tracce. La Pinocchieide finisce qui: il Pinocchio di Matteo Garrone, con Benigni Geppetto e uscita a Natale: due precedenti invero poco auguranti, e quello in stop-motion del messicano Guillermo Del Toro per Netflix, avranno altra storia, confidiamo. “Mi muovo! So parlare! Cammino!” e, aggiungiamo, non faccio più lo sgambetto. Finalmente.