Corriere della Sera, 10 luglio 2019
Italo Balbo fascista filoislamico
«Noi avremo in Libia non dominatori e dominati, ma italiani cattolici e italiani musulmani, gli uni e gli altri uniti nella sorte invidiabile di essere gli elementi costruttori di un grande potente organismo, l’Impero fascista». Rileggere oggi le carte di Italo Balbo, che riaffiorano in gran parte inedite e sorprendenti dalle scartoffie dell’Archivio centrale dello Stato proprio in questi tempi così complicati nei rapporti tra l’Italia e il Sud del Mediterraneo, è un’esperienza imperdibile. A partire soprattutto dai rapporti fra l’allora governatore della Libia e quella che lui stesso, in una relazione a Mussolini «sulla incorporazione delle province libiche al regno d’Italia e sulla concessione di particolare cittadinanza italiana ai libici mussulmani», definisce una terra «geograficamente parte integrante della penisola». La Quarta Sponda, appunto.
C’è di tutto, in quelle carte riordinate da Margherita Martelli. Come due telegrammi del Duce al quadrumviro ferrarese nel corso della trionfale «Crociera Aerea del Decennale» negli Stati Uniti e in Canada. Nel primo, a metà luglio, si congratula per l’arrivo da Reykjavík a Cartwright, in Canada («Tutto il popolo italiano ha vibrato di spontaneo entusiasmo stop») e ironizza: «Vedo che ti attieni rigorosamente fascisticamente alla mia consegna: massima disciplina in aria=minima dispersione di energie in terra. A noi!». Nel secondo è infastidito dall’eccesso di accoglienze tributate al «Neo-Colombo» («formidabile ambasceria/ d’italiana diplomazia», diceva un fumetto de «Il Balilla») via via che appariva nei cieli con la sua flottiglia di idrovolanti: «Devi ridurre al minimo cioè a quanto è voluto dalla cortesia internazionale la mole delle manifestazioni che ti si preparano». Insomma, «Il tuo non est un volo sportivo. Fallo intendere et se non lo intendono piantali tutti senza indecisioni…». Intimazione seguita, quattro mesi dopo, dalla scelta di spedire il «Maresciallo dell’Aria» (decisione inaspettata, a leggere una lettera di Giuseppe Bottai, incredulo, all’«amico Italo») come governatore in Libia.
Ed è qui la parte più interessante degli incartamenti su Balbo messi finalmente a disposizione degli storici, (assieme a un’enormità di altri documenti sepolti da decenni nei depositi o solo oggi desecretati) per il progetto Nuove fonti per la storia d’Italia, ideato e diretto da Eugenio Lo Sardo e a cura di Mirco Modolo. L’insistenza dell’«avio-governatore» sulla necessità politica di coinvolgere gli arabi nell’edificazione di una Libia italiana e fascista.
Punto primo: il rispetto. «Debbo francamente riconoscere che il governo dell’epoca per affrettare la venuta di famiglie italiane sul Gebel cirenaico e guadagnar tempo per le piantagioni, autorizzò l’occupazione dei terreni prima ancora che l’Ufficio Fondiario ne effettuasse l’indemaniamento», scrive il 24 aprile 1935. Un problema, per i rapporti con i locali. Più importante ancora però, prosegue, è il rispetto della cultura locale: «L’insegnamento arabo e quello religioso è adeguato alle necessità: scuole italo-arabe, scuole coraniche, moschee sono aperte nei principali centri e agglomerati di popolazione». Certo, aggiunge, lui non è d’accordo sulla richiesta libica di istituire «una scuola secondaria per giovani arabi. Sono decisamente contrario alle esagerazioni compiute da qualche nazione nel campo dell’istruzione degli indigeni perché penso che un eccessivo elemento culturale potrebbe far sorgere sentimenti di indipendenza. Ma qualcosa bisogna fare; non è possibile lasciare aperte agli arabi solamente le scuole elementari…»
La settimana successiva torna alla carica in una lettera al Duce: «Mio Capo!». Ce l’ha coi metodi di Rodolfo Graziani, che secondo lui in Cirenaica ha «esagerato». Lo giudica «un soldato coloniale d’eccezione», ma con «gravi deficienze negli affari civili». Per carità, non è «opportuno e neppure possibile, senza grave ed irreparabile danno, sconfessare improvvisamente» il suo operato, ma occorre una svolta sia sugli indennizzi per i terreni di fatto requisiti sia sul piano culturale. «Ti proporrò», avverte il Duce, di «fondare una scuola araba religioso-amministrativa». Vacci piano con la «facoltà teologica», gli risponde Mussolini: «Massima ponderazione».
Lui si spinge oltre. E nella scia dello stesso dittatore che nel 1936 a Tripoli, a cavallo, ha levato la «spada dell’Islam» tuonando che «L’Italia fascista intende assicurare alle popolazioni musulmane della Libia e dell’Etiopia la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto alle leggi del Profeta e vuole inoltre dimostrare la sua simpatia all’Islam e ai Musulmani del mondo intero», arriva nel 1937 a proporre di dare ai libici addirittura la cittadinanza italiana. Certo, spiega la bozza, occorrono dei requisiti: almeno 21 anni di età, la fedina penale candida, la terza elementare… Ma è una «cittadinanza italiana piena». Non fu forse lo stesso capo del governo, sottolinea Balbo con qualche malizia, a dire loro «Mussulmani di Tripoli della Libia! Diffondete queste mie parole in tutte le case delle vostre città e nei vostri paesi fino alle ultime tende dei pastori»? Non fu lui a impegnarsi? «Voi sapete che io sono un uomo parco nelle promesse, ma quando prometto mantengo». E loro «sono in attesa».
Problemi religiosi zero: «Il governo non ha mai favorito in Libia alcuna forma di proselitismo religioso inteso a convertire i mussulmani ad altra fede», dice il governatore l’anno dopo in una conferenza a Roma su La politica sociale fascista verso gli Arabi della Libia. «Anzi, ha manifestato il suo interessamento a favore del culto islamico intervenendo generosamente, con elargizioni cospicue, per restaurare vecchie moschee e costruirne di nuove, anche nei territori desertici, dove le popolazioni nomadi sinora non avevano mai potuto genuflettersi all’Onnipossente in un sacro recinto».
Insomma, insisterà con parole che oggi appaiono stupefacenti, «rispettoso delle tradizioni indigene, il governo italiano ha tuttavia mantenuto in vita tali scuole coraniche alle dipendenze delle autorità religiose delle zavie, affinché nessuno potesse pensare che si volesse sottrarre i bimbi arabi ai tradizionali insegnamenti religiosi».
Certo, contro quelle aperture c’è chi, ai piani alti del regime, storce il naso. Tanto più che quella conferenza romana, tenuta proprio una manciata di giorni dopo l’annuncio delle leggi razziali contro gli ebrei fatto da Benito Mussolini il 18 settembre a Trieste, pare una presa di distanza. Lui, più o meno in contemporanea, risponde ai dubbiosi con sei fogli dattiloscritti («Chiarimenti alle obiezioni mosse al progetto») dove spiega che occorre «saldare in un’unica compagine» Italia e Libia come aveva fatto la Francia con l’Algeria, e tranquillizza il Duce e i suoi gerarchi su tre punti.
Uno è sulla poligamia, non prevista per la penisola: «Gli effetti della cittadinanza sono limitati al territorio della Libia ed estesi soltanto a quello dell’Africa orientale italiana». Il secondo sulla concessione ai libici del diritto di voto: «È escluso che possa sorgere qualsiasi preoccupazione giacché l’Istituto elettoralistico non esiste più nemmeno nel Regno». Sic! E il terzo nodo, quello razziale? Tranquilli, risponde Italo Balbo, «giacché la progettata riforma (…) lascia la differenza tra l’elemento metropolitano e quello locale, nel seno del quale poi distingue la popolazione mussulmana (alla quale soltanto si dirige il progettato beneficio) dall’altra parte della popolazione di razza ebraica alla quale non viene concesso». Parole terribili. Il tutto con una riga di sottolineatura: niente equivoci, l’Italia era e restava razzista. Soprattutto verso gli ebrei. La fedeltà al regime, al di là dei distinguo, era confermata.
Morirà un paio di anni dopo. In volo. Abbattuto nel cielo di Tobruk, «per errore», dagli stessi italiani. Racconterà Silvio Bertoldi in Camicia nera che il Duce commentò a modo suo: «Un bell’alpino, un grande aviatore, un autentico rivoluzionario. Il solo che sarebbe stato capace di uccidermi».