Corriere della Sera, 10 luglio 2019
Il sesso freddo dei ragazzi
Alcuni dicono di rivolgersi anche agli amici o a fratelli e sorelle più grandi. Pochi ai genitori, nessuno agli insegnanti. Ma, se gli chiedi cosa fanno quando vogliono chiarirsi un dubbio sul sesso, in prima battuta tutti rispondono allo stesso modo: «Cerco su Internet». Basta un giro di domande davanti al Liceo classico G. Parini di Milano per farsi un’idea delle fonti più utilizzate dagli adolescenti quando si tratta di sessualità.
Le (poche) ore di educazione sessuale alle quali hanno partecipato sembra non siano servite a granché. Di certo non sono bastate ad aprire un canale di fiducia tra gli studenti e la scuola.
«Il mio pubblico è formato da ragazze dai 18 ai 24 anni, ma mi seguono anche tanti ragazzini dai 13 in su», conferma Shanti Winiger, 29enne di Locarno (in Rete la trovate come Shanti Lives) che nel 2013 è sbarcata su YouTube per parlare di sessualità ed è diventata una delle più seguite a livello italiano su questo tema. Ora si sta aprendo anche ad argomenti diversi ma capita ancora che gli utenti le scrivano per chiederle consigli, «soprattutto sull’orientamento sessuale: alcuni sono confusi, altri spaventati. Io dico loro che non devono avere fretta di darsi un’etichetta. Di domande “tecniche” invece ne ricevo poche: in parte perché i miei video sono molto esaurienti, ma anche perché credo cerchino soprattutto risposte a dubbi legati alla loro identità».
Già, perché chi lo dice che Internet non possa essere anche un buon canale informativo quando si parla di sesso? Per Emanuela Confalonieri, docente di Psicologia dello sviluppo all’Università Cattolica di Milano e coordinatrice del gruppo di lavoro che si è occupato della ricerca «Adolescenti, relazioni sentimentali e sessualità» (condotta nel 2016 e aggiornata al 2019), «online si trovano molti siti ben documentati e costruiti per invitare i ragazzi a riflettere. Internet può essere il posto giusto per raccogliere informazioni e cercare risposte a domande che magari i giovani non osano fare». Diventando, talvolta, un valido appoggio per la scuola: «Trent’anni fa bisognava partire da zero mentre oggi gli adolescenti, anche grazie alla Rete, sono spesso già informati. L’educazione sessuale intesa come spiegazione delle dinamiche del rapporto non è sufficiente: al suo posto, in aula, servono spazi di confronto che aiutino gli adolescenti a capire il sesso e le relazioni».
Spazi che sono in realtà percorsi multidisciplinari che prendono nomi molto diversi. C’è chi la chiama ancora educazione sessuale ma anche chi preferisce parlare di educazione sentimentale oppure affettiva. La pedagogista e scrittrice Barbara Mapelli, che si occupa di questo tema dagli anni Ottanta, la definisce educazione di genere: «Le relazioni fra i sessi si sono evolute. Da un lato le donne sperimentano libertà che prima non avevano, mentre dall’altro alcune vecchie tendenze resistono ancora, come la doppia morale. La fragilità degli uomini di fronte a questi cambiamenti può trasformarsi in violenza e inasprire le pene non basta: bisogna agire a monte con un’educazione ad hoc, dall’asilo fino alle superiori».
Fondamentale, in questo senso, la formazione degli insegnanti ma anche dei genitori. Mapelli, che è anche responsabile scientifica del progetto «ImPARI a scuola» attivo a Milano, mette l’accento su questo segmento: «Prima bisogna educare gli adulti, poi saranno loro a occuparsi, in maniera consapevole, dell’educazione di bambini e ragazzi. Cominciando dai ruoli, anche in famiglia».
Anche l’associazione di promozione sociale Scosse (acronimo che sta per Soluzioni Comunicative Studi Servizi Editoriali), nata a Roma nel 2011 come spin-off dell’università di Tor Vergata, parte dagli stessi presupposti. Come spiega la presidente Monica Pasquino, «fare educazione sentimentale significa, secondo noi, offrire fin dalla piccolissima età strumenti per costruire un immaginario aperto, con rappresentazioni che permettano identificazioni dei ruoli di genere il più possibile liberi dagli stereotipi. Dei quali, invece, il mondo della scuola purtroppo è ancora pieno».
La docente della Cattolica: «Trent’anni fa bisognava partire da zero, mentre oggi gli adolescenti sono spesso già informati»
A partire dai libri di testo. All’inizio dell’anno si era molto discusso di un esercizio, contenuto in un corso di letture per la scuola primaria, che invitava i bambini a cancellare i verbi adatti a determinate figure: ne risultava che la mamma cucina e stira (il verbo da barrare era «tramonta»), mentre il papà lavora e legge (il verbo da escludere, in questo caso, era «gracida»). Alla polemica la casa editrice responsabile, La Spiga, aveva risposto dichiarando di aver modificato l’esercizio nell’edizione per il prossimo anno scolastico.
Anche gli insegnanti, però, «vanno formati in modo da garantire il giusto atteggiamento nei confronti degli studenti», come sottolinea Pasquino. La sessualità c’entra poco, anzi niente: si tratta di abbattere un altro tipo di stereotipi, per esempio quello che vuole le ragazze meno portate nella matematica rispetto ai loro compagni maschi e che alcuni insegnanti, magari inconsapevolmente, portano avanti.
Un lavoro enorme, insomma. Non per nulla Celeste Costantino, ex deputata Sel, aveva stimato i costi dell’introduzione dell’educazione sentimentale nelle scuole italiane in 200 milioni di euro. Nel pacchetto entravano la formazione del corpo docente e l’inserimento di un’ora alla settimana dedicata a questi temi gestita da un insegnante che si dedicasse a questo, una figura nuova ancora da creare. La sua proposta di legge, depositata nel 2013, ha avuto un iter complicato: «Ci ho messo anni per calendarizzarla – racconta – quando finalmente ce l’ho fatta, alla fine della legislatura, sono arrivati così tanti emendamenti al testo base che non siamo nemmeno riusciti a terminare l’iter». Così è finita in un nulla di fatto.
Come quella avanzata da socialisti e repubblicani (1992), dal Pds (1995), da Alberta De Simone di Sinistra Democratica, da Nichi Vendola allora di Rifondazione comunista (entrambe nel 1996), dal leghista Flavio Rodeghiero (1999), da Franco Grillini di Sinistra Democratica (2007), da Valentina Vezzali di Scelta Civica, dall’allora vicepresidente del Senato Valeria Fedeli del Pd (entrambe nel 2014), dalla forzista Giuseppina Castiello (2015). Ma ci avevano provato, a suo tempo e con proposte ad hoc, anche il Partito comunista e la Democrazia cristiana. L’aveva chiesta pure Ilona Staller nel suo primo discorso a Montecitorio dopo l’elezione tra le file dei radicali. Era il 1987 e la neodeputata aveva spiegato: «Voglio portare un po’ di gioia nella scuola, in un mondo dove la violenza e la prepotenza si mescolano da sempre con la religione».
Lo scoglio non riguarda soltanto la politica: il rapporto dell’Unione Europea «Policies for Sexuality Education in the European Union», pubblicato nel 2013, identifica nell’«opposizione della Chiesa cattolica e di alcuni gruppi politici» le ragioni del ritardo italiano in materia. Dall’ambito religioso, però, ora arrivano segnali di apertura. A fine gennaio, a sorpresa, Papa Francesco aveva dichiarato: «Io penso che nelle scuole bisogna fare educazione sessuale». Aveva poi toccato, con il suo discorso, diversi punti cari agli esperti che si occupano del settore: il Pontefice aveva infatti parlato della necessità di cominciare presto («bisogna avere l’educazione sessuale per i bambini») e dell’importanza del sostegno della famiglia («l’ideale è che comincino a casa, con i genitori»). Tempo un mese e anche la ministra della Salute Giulia Grillo aveva accennato all’argomento, dichiarando che «l’insegnamento nella scuola di temi legati alla sessualità e alla riproduzione può fornire un punto fermo di informazioni certe e certificate».
Sei mesi più tardi, siamo ancora fermi nello stesso punto. Cioè alla buona volontà dei singoli istituti, effetto dell’autonomia scolastica che, dal 2000, lascia al ministero dell’Istruzione le linee guida dei programmi e demanda la responsabilità dell’offerta formativa al corpo docente dei singoli istituti. L’ultimo passo avanti risale alla riforma della Buona Scuola, varata dal governo Renzi: l’allora ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli ha introdotto l’«educazione al rispetto» che si rifà direttamente all’articolo 3 della Costituzione e che riguarda «la parità tra i sessi e la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione» come scritto sul documento ufficiale. «L’educazione al rispetto, per me, è la base necessaria: presuppone la capacità di gestione dei sentimenti e dell’affettività, che a loro volta comportano quella di affrontare le emozioni ma anche il corpo e quindi la sessualità», motiva Fedeli.
Le fondamenta, insomma, in teoria ci sono. In pratica è il tetto che manca, come ammette l’ex ministra: «In Italia l’educazione sessuale è difficile da realizzare». Anche altri Paesi, in Europa, ci hanno messo parecchio: in Gran Bretagna, per esempio, è stata introdotta soltanto due anni fa e in un manipolo di altri, Spagna compresa, non si è ancora arrivati a una norma precisa. Invece la Svezia, nel 1955, è stata la capofila. Esattamente vent’anni dopo, nel 1975, da noi è stata avanzata la prima proposta di legge sul tema (da Giorgio Bini, del Pci). Oggi, a distanza di 44 anni, in Italia l’educazione sessuale è ancora esclusa dai programmi obbligatori.