la Repubblica, 10 luglio 2019
Cose da sapere sulle nostre prigioni
Il sovraffollamento delle carceri italiane, dopo qualche anno di relativo sollievo, ha ripreso a crescere irresistibilmente. Rispetto alla capienza regolamentare di 50.700 unità, che comprende migliaia di posti disponibili solo sulla carta, si trovano reclusi 60.500 individui. Una condizione di promiscuità coatta che mortifica la dignità della persona all’interno di una macchina soffocante. Questo immane peso del carcere sul corpo inerme del carcerato è immediatamente percepibile: così come si avverte, quasi fisicamente, una sensazione di nudità davanti agli occhi dei custodi.
È una delle molte emozioni che sollecita la lettura di Prigione di Emmy Hennings, edito in Germania nel 1919 e pubblicato in Italia solo quest’anno da L’Orma Editore. E, in effetti, l’idea del carcere si fonda su una irriducibile ambivalenza dello sguardo di chi lo osserva e su un conflitto insanabile tra il Vedere e il Non vedere. Nella lingua greca, optikon rimanda a tutto ciò che riguarda l’esperienza visiva. Di conseguenza, il panottico è una tipologia di costruzione destinata a prigione, di forma circolare, che permette a chi sorveglia, collocato al centro, di controllare l’interno delle celle, tutte disposte lungo il perimetro dell’edificio. Il dispositivo, elaborato nella Seconda metà del Diciottesimo secolo dal filosofo e giurista Jeremy Bentham, aveva una duplice ambizione: osservare tutti i reclusi senza che gli osservati ne venissero a conoscenza, realizzando un luogo di privazione della libertà dove il ricorso a mezzi di repressione fisica viene accompagnato da penetranti strumenti di interferenza nella sfera personale. Allo stesso tempo, il panottico alludeva a una sorta di modello sociale: una distopia claustrofobica che intendeva sostituire al dispotismo della violenza di Stato i mezzi di una società dove dominerebbe un controllo invisibile e onnipervasivo.
Questo possibile esito illumina anche il tragico paradosso di un grande pensatore liberale, come Bentham, che dedicò la propria vita alle battaglie per un riformismo radicale e libertario, ma che rimase come imprigionato dalla tentazione dell’ingegneria sociale. In ogni caso, la forma architettonica del panottico, offre una rappresentazione quanto mai puntuale della nostra concezione del sistema dell’esecuzione penale: la necessità di Vedere e controllare il male che aggredisce la convivenza sociale è costantemente insidiata dalla volontà di Non vedere perché ciò che l’occhio scorge può rappresentare un trauma. Se, da una parte, al fine di “sorvegliare e punire” si deve sviluppare al massimo la capacità di indagare negli spazi, anche i più intimi, del recluso, dall’altra, la rimozione rappresenta la sola strategia per difendersi dall’orrore che il carcere contiene, riproduce e proietta sulla società dei non carcerati.
Il punto di partenza resta quello: la materialità della coazione fisica dei corpi contenuti in spazi angusti e opprimenti. Non a caso “ristretto” è un’altra delle definizioni di detenuto (e “Ristretti Orizzonti” è il nome dell’associazione che, come il Partito Radicale, Antigone e L’altro diritto, si batte per la loro tutela). Sandro Bonvissuto nel suo bellissimo Dentro del 2012 (Einaudi) ha raccontato la sensazione fisico-tattile di questa contraddizione tra la continua pressione di un’osservazione indagatrice, che arriva a “vedere” fin i bisogni fisiologici del detenuto, (liquidi, secrezioni, umori, eiezioni, sudori…), e il ritrovarsi invisibile, non guardato e non sentito, dalla comunità dalla quale la detenzione separa irreparabilmente. Emmy Hennings, fondatrice insieme a Hugo Ball del Cabaret Voltaire, attivo tra la fine della Prima guerra mondiale e l’avvento del nazismo in Europa, viene arrestata per furto nel 1914. È l’occasione per raccontare il suo viaggio intimo (intimo: e qui sta la sua originalità) nelle paure e nelle angosce, nelle regole e nelle interdizioni, nell’irrazionale e nel paradosso della reclusione. Le domande che Hennings pone meriterebbero, ognuna, un approfondimento, ma sono i dettagli e gli aspetti in apparenza più banali a rivelare tutta la potenza del suo pensiero e della sua scrittura. Si avverte il suo stupore, come di bimba che guardi per la prima volta il mondo reale a bocca spalancata, quando osserva la mancanza di profondità, superficie, prospettiva degli ambienti del carcere.
Non potrò mai perdonare le mani impietose che consapevolmente hanno costruito queste mura, scrive. Ed è proprio l’architettura del carcere, questo passaggio repentino dalla luce al buio e al freddo a non poter essere casuale. «Voi come l’avete pensata la prigione? E come vorreste la vedessi io? Non sono stata informata delle vostre intenzioni». Ecco, ancora, la dimensione fisica della struttura carceraria e della sua massiccia immanenza, ovvero il carcere come materia costruita, come peso del cemento e della pietra, del ferro e dell’acciaio, che deprime umore e pensiero. E che grava soffocante su chi vi sconta una pena e su chi vi esercita una professione.
È quanto si trova in un altro libro, uscito di recente, quello di Francesco Ceraudo, Uomini come bestie. Il medico degli ultimi, (edizioni ETS). Leggendolo, a cento anni esatti dalle parole della Hennings, sembrerebbe proprio che il legislatore e l’ingegnere e l’architetto non abbiano tratto il benché minimo insegnamento da una lunghissima storia di sofferenze e di violazioni dei diritti fondamentali della persona: e ciò nonostante gli studi pioneristici di Giovanni Michelucci e quelli recenti di Luca Zevi.
Un vero manuale di vita penitenziaria quello di Ceraudo, che propone una tesi tanto radicale quanto inconfutabile: il carcere è un luogo che ammala più spesso di quanto guarisca. L’intreccio tra salute e detenzione è strettissimo. Basti considerare il lungo percorso richiesto affinché i malati di Aids non concludessero la propria vita in carcere: dopo un primo positivo provvedimento, un tragico fatto di cronaca portò ad annullare la norma. Ci vollero molti anni e numerosi pazienti terminali condannati a morire in cella, per ripristinare quella elementare conquista di civiltà. Si conferma così, che oggi come ieri, ogni piccolo progresso può aprire la strada, allo stesso tempo, a una profonda regressione, l’elaborazione e l’impegno riformatore di anni rischiano costantemente di essere annullati da un singolo allarme sociale, dall’ingordigia dei media, dalla pavidità della classe politica. Allora diventa tanto più importante ricordare la determinazione di quegli operatori che, come Ceraudo, vivono quell’atroce esperienza da uomini liberi, sporcandosi le mani tra sangue asciugato, lembi di carne ricuciti, oggetti recuperati da stomaci tormentati, vite salvate e altre per le quali non si è arrivati in tempo.
Durante la sua reclusione, la Hennings era incalzata da un dubbio: «Chi, tra le donne e gli uomini liberi pensa ai detenuti?». Forse si può arrivare a dire che intorno al carcere non circoli alcun pensiero, se non così terribilmente minoritario da risultare flebile. Le responsabilità sono tante e di tanti, ma prevale la sensazione di una irriducibile ottusità del carcere come istituzione e come parte del sistema statuale. Il fatto, cioè, di non saper immaginare alternative a se stesso e all’abisso mentale e morale della cella chiusa (e della chiave “buttata via"). Giada Ceri, nel suo La giusta quantità di dolore (Exòrma, 2018) ci parla dell’assoluta incapacità del carcere di perseguire qualunque interesse pubblico, tanto meno il fine affermato dalla Costituzione («tendere alla rieducazione del condannato»). Insomma il solo “pensiero” pensato dal carcere sembra essere la propria stessa perpetuazione e riproduzione. Forse il carcere è davvero ottuso. Oppure, il sistema penitenziario, ripensandosi, prova per sé un sentimento di vergogna, al quale, come sempre accade in questi casi, si tenta di sfuggire con l’occultamento, il nascondimento, la rimozione. Strategie dell’occhio e dell’anima.
(Valentina Calderone è la direttrice dell’associazione A buon diritto)