il Fatto Quotidiano, 10 luglio 2019
La Calabria e il caso Oliverio
eri la nostra Wanda Marra ha trascorso la giornata a domandare a vari esponenti del Pd che ne pensano della richiesta di rinvio a giudizio avanzata dalla Procura di Catanzaro per il loro governatore della Calabria, Mario Oliverio, da tempo indagato e ora imputato per corruzione e abuso d’ufficio. Deve dimettersi? Deve restare? Decide lui? Decide il partito? Essere imputati di reati gravi come la corruzione è una medaglia, un disonore, un campanello d’allarme, un dettaglio trascurabile? Se ne stanno occupando i probiviri del Pd, oppure il segretario Nicola Zingaretti, oppure se ne fregano tutti? E che senso ha un partito che sfiducia il suo sindaco di Roma, Ignazio Marino, allora indagato per alcune cene a sbafo (peculato e falso, non corruzione); induce alle dimissioni la sua governatrice dell’Umbria Catiuscia Marini, indagata per lottizzazioni e concorsi pilotati nella sanità (abuso d’ufficio, rivelazione di segreto, favoreggiamento e falso, ma non corruzione); beatifica il suo sindaco di Milano Beppe Sala condannato per falso; e non dice una parola su (e a) Oliverio imputato per corruzione?
Il codice etico del Pd è talmente vaporoso ed elastico da prevedere solo la non candidatura dei condannati (in via provvisoria o definitiva) per reati gravissimi e nulla dice degli indagati. E forse è giusto così: ogni indagine fa storia a sé e, almeno fino alla condanna di primo grado, dovrebbero essere il segretario e i probiviri a valutare i fatti contenuti nelle carte giudiziarie: se emergono condotte già provate o altamente probabili che sono incompatibili, per ragioni penali o etiche, con l’adempimento di pubbliche funzioni “con disciplina e onore” (art. 54 della Costituzione), non occorrono condanne, ma nemmeno avvisi di garanzia, per imporre le dimissioni. Se invece i fatti sono controversi, o di nessuna gravità, il partito può anche assumersi la responsabilità di lasciare il suo amministratore in carica anche in caso di condanna di primo grado o di appello. Ma, appunto, occorrono regole chiare, valide per tutti, e alla fine qualcuno deve decidere e metterci la faccia: o il segretario, o i probiviri. Il M5S sappiamo come si regola: dimissioni obbligate in caso di condanna di primo grado (la Raggi, se condannata, avrebbe dovuto sloggiare dal Campidoglio), fermo restando che si può essere cacciati anche prima dai probiviri e/o dal capo politico (Di Maio espulse su due piedi Marcello De Vito dopo l’arresto per corruzione). Una regola troppo rigida, che potrebbe costare le dimissioni a Chiara Appendino, se fosse condannata in primo grado.
Eppure una condanna per omicidio colposo riguarderebbe una responsabilità oggettiva nella morte della donna travolta dalla folla in piazza San Carlo durante la diretta della finale di Champions League e non farebbe di lei una ladra o una delinquente: bisognerebbe almeno distinguere fra reati dolosi e reati colposi. In ogni caso, è tutto chiaro. Invece nel Pd è tutto oscuro, affidato agli umori del momento: via Marino e Marini, viva Sala e tutti zitti su Oliverio. Infatti, alla nostra cronista, nessuno ha voluto rispondere sulla richiesta di rinvio a giudizio del governatore calabrese per corruzione (ma anche per la deputata Pd Enza Bruno Bossio e per l’ex vicepresidente regionale Nicola Adamo). Solo qualche trito pigolio sui soliti 5Stelle (“E allora la Raggi?”, come se fosse mai stata indagata o imputata per corruzione, e soprattutto come se non fosse stata poi assolta da tutto). Eppure l’atto contro Oliverio&C. porta la firma del procuratore Nicola Gratteri, che Renzi voleva addirittura ministro della Giustizia (poi si piegò al niet di Re Giorgio). E il processo riguarda gravi illeciti nella gestione degli appalti sull’aviosuperficie di Scalea e l’ovovia di Lorica, affidati all’impresa di Giorgio Ottavio Barbieri, ritenuto dagli inquirenti vicino alla cosca Muto di Cetraro, oltre a quello per il rifacimento di una piazza a Cosenza (l’unica delle tre opere portata a termine). Secondo la Procura, la Regione pidina aiutò Barbieri a mettere le mani sui fondi europei, pur sapendo che la sua azienda era priva delle capacità tecniche e finanziarie per realizzare le opere. Poi Oliverio convinse Barbieri a rallentare i lavori a Cosenza per danneggiare il sindaco di centrodestra Mario Occhiuto e conseguire un “tornaconto politico” a danno della città, tramite presunte pressioni di Adamo e della moglie Bruno Bossio sul direttore dei lavori. Risultato: la solita lievitazione dei costi (oltre 2 milioni di euro stanziati indebitamente dalla Regione con varie falsificazioni degli stati di avanzamento lavori) e due opere (su tre) mai viste. “Una lotta politica che più deteriore non si può immaginare”, l’ha definita il gip.
È questo il “nuovo Pd” che ha in mente Zingaretti? E, se no, che aspetta a intervenire? Non si pretende il trattamento Marino, cioè i consiglieri regionali segregati da Orfini nello studio di un notaio. Ma almeno la cura Marini, cioè una telefonatina del segretario a Oliverio perché abbia la “sensibilità” di dimettersi, sarebbe d’uopo. Tantopiù che a febbraio in Calabria si vota. Oppure Zinga potrebbe dare un senso ai ben 9 probiviri della “Commissione di Garanzia”, che troneggiano inutilmente sul sito del Pd e che qui citiamo per nome e cognome a imperitura memoria: Filippo Barberis, Daniele Borioli, Loredana Capone, Bernardo De Stasio, Marco Di Maio, Marilena Fabbri, Giovanni Lattanzi, Enrico Panunzi e Silvia Velo. Ragazzi, tutti bene? Come trascorrete le vostre giornate? Ma soprattutto: vista la disparità di trattamento che il Pd riserva alle accuse (ben più lievi) per la umbra Marini e a quelle (ben più gravi) per il calabrese Oliverio, siete informati che la Calabria è in Italia?