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 2019  luglio 09 Martedì calendario

Lunga intervista a Michelangelo Pistoletto

È anche grazie a lui, pittore, scultore e artista a tutto tondo se l’Italia s’è ripresa la scena che aveva perduto. Michelangelo Pistoletto, presente nei musei di punta d’arte moderna e contemporanea, è artista dalle quotazioni milionarie. Padre dell’Arte povera, è passato per il plexiglas, gli stracci, i quadri specchianti, che sono stati il filo conduttore di sessant’anni d’attività.
Pistoletto ha sperimentato tecniche e materiali inconsueti, e soluzioni che hanno anticipato i tempi. Su tutte, il Terzo Paradiso, che nasce come rielaborazione del segno matematico dell’infinito: tre cerchi consecutivi dove i due laterali, la natura e l’artificio, portano a quello centrale. 
Negli anni Novanta Pistoletto è tornato a vivere dove è nato, a Biella, fondando la Cittadellarte, un laboratorio pluridisciplinare dove «ispirare e produrre un cambiamento responsabile nella società attraverso idee e progetti creativi». In questo periodo, la Cittadellarte ospita la mostra Padre e Figlio, un confronto tra le opere di Michelangelo Pistoletto e del padre Ettore Pistoletto Olivero.
Che tipo di padre è stato il suo? 
«Papà mi ha insegnato il disegno e la pittura, è stato la mia scuola. Era sordo per via di una meningite, ma per i primi otto anni della sua vita sentiva normalmente. In qualche maniera la sordità si è riflessa su di me portandomi verso lo sguardo anziché verso l’udito. In casa non si parlava di musica. La prima radio entrò in casa mia quando avevo 18 anni, la volle mia madre».
La pittura era dunque inevitabile?
«Papà guardava avanti, non accoglieva la modernità che si era sviluppa a partire dall’impressionismo. Per lui l’occhio voleva dire riprodurre il reale. Si aggiunga il fatto che non aveva potuto seguire tutte le discussioni degli artisti quando creavano i movimenti rivoluzionari dell’arte moderna. Era inoltre restauratore di quadri antichi per cui, oltre che a disegnare e dipingere, con lui imparai anche la storia dell’arte praticata attraverso la mano. A 14 anni iniziai a lavorare con lui». 
E la scuola?
«Facevo le serali, papà non voleva che frequentassi accademie e mi interessassi così all’arte moderna».
È vero che a 18 anni ebbe una folgorazione imbattendosi nella «Flagellazione di Cristo» di Piero della Francesca?
«Nonostante le reticenze di mio padre, questo accadeva dopo il mio grande incontro con l’arte moderna. Con la Flagellazione scoprii che esiste una dialettica fortissima tra arte astratta e figurativa. Mi resi conto che il problema non era il confronto tra l’astratto e il figurativo, ma una fenomenologia che Piero della Francesca rendeva evidente attraverso la prospettiva. Per me era una questione che superava sia la raffigurazione che l’astrazione». 
Altri incontri decisivi?
«Quello con L’avventura di Michelangelo Antonioni. Un film rappresentativo di una storia, ma dove, allo stesso tempo, la storia non c’entra. C’entra un’astrazione intellettuale e di immagine. Proprio come in Piero della Francesca dove non è della flagellazione che parla l’opera». 
Lei ama il cinema? 
«Non vado al cinema da anni, e in particolare da quando sono a Biella. Con la nascita della tv, il cinema ha perso la grandissima importanza che aveva negli anni Cinquanta quando si poneva come un fenomeno straordinario, fatto di luce e immagini».
A Biella ha creato la cittadella dell’arte. 
«Attenzione: cittadellarte. Abbiamo unito città e cittadella. Cittadella come luogo di difesa e città come luogo dell’espansione. Tutto nasce dal termine cittadella perché agli inizi, parlando di questo progetto, dissero che Pistoletto intendeva inaugurare una cittadella dell’arte. Da qui trassi il titolo».
Immaginava gli sviluppi che avrebbe avuto? Ora lavorate anche con università, sta per partire un master in Design in collaborazione con il Politecnico di Milano. 
«Sì, lo immaginavo. Ci contavo. Così come oggi confido che avrà grandi sviluppi. Io mi sento sempre all’inizio. Si continua e si riparte».
In particolare, quale progetto o artista usciti dalla Cittadellarte la rendono orgoglioso?
«Non segnalo nessuna persona in particolare, ma la quantità di situazioni che si sono messe in atto. Abbiamo avuto giovani venuti da tutte le parti del mondo che poi hanno esportato queste esperienza. Attraverso il Terzo Paradiso, la nostra Università delle idee si è estesa in tutto il mondo con 180 ambasciate: nascono per germinazione spontanea, promosse da persone che avvertono un bisogno che si deve esplicare e trovano il mezzo per farlo, come se fosse una vocazione. È un modo per sentirsi partecipi e responsabili di quello che sta intorno».
Quindi la responsabilità è alla base del suo fare artistico?
«Nel ventesimo secolo, l’arte ha sviluppato un’attitudine massima alla libertà. Ma più sei libero e più sei responsabile, la libertà serve a prendere decisioni autonomamente. Il che comporta un aumento di responsabilità. Responsabilità che non possono essere solo verso te stesso ma anche verso gli altri».
Lei disse che ogni suo prodotto è una liberazione e non una costruzione che volesse rappresentarla. Liberazione da cosa?
«Liberazione vuole dire togliersi da una situazione dove non ci sente a proprio agio così da intraprendere una nuova strada. Non è solo liberarsi da una cosa, ma acquisire qualcosa d’altro. L’epoca in cui lo dissi guardavo criticamente il mondo pensando che fosse possibile una liberazione. Mi dicevo: se il mondo non funziona, allora fallo funzionare tu. Pensavo che il mezzo per far funzionare le cose fosse l’arte».
In questi ultimi tempi di cosa avverte il bisogno di liberarsi?
«Oggi, per me, non è più una questione di gesto liberatorio, ma è l’individuazione delle situazioni insostenibili così da passare alla sostenibilità. Consiste nell’individuazione di ciò che impedisce un passaggio importante. Il rapporto dell’umano con la natura chiede oggi una soluzione nuova che non c’è, e le conseguenze sono disastrose. Sono però molto contento che almeno ci si renda conto sempre di più dei pericoli incombenti, anche perché abbiamo la certezza scientifica che stiamo rovinando il pianeta, siamo quasi a un punto di non ritorno».
In 60 anni d’attività, ha espresso sentimenti e situazioni della condizione umana. Oggi cosa si riflette nello specchio di Pistoletto?
«Oggi sono la tecnologia e la scienza il grande specchio dell’umano e dell’esistente. La scienza non inventa nulla, le scoperte scientifiche si fanno sull’esistente. L’ignoto e la potenza dell’universo sono stati percepiti fin dai tempi antichi, e si sono date risposte con la magia. Poi è arrivata la religione che però all’ignoto ha dato definizioni arbitrarie parlando di esseri capaci di creare l’universo: essere o esseri a seconda delle religioni. La scienza ha sostituito la religione e la magia». 
Lei crede e ha fiducia nella scienza, dunque.
«La scienza dà risposte oggettive e non immaginarie. È una religione avanzata. Con la tecnologia, con la possibilità di riprodurre l’essere umano con robot, abbiamo la possibilità di vedere come siamo fatti perché riproduciamo noi stessi. Facciamo macchine sempre più vicine a noi. Con la scienza e la tecnologia abbiamo uno specchio fisico dell’esistente. Il mio specchio è visivo, comprende quello che esiste, mentre la tecnologica è uno specchio fisiologico».
Ci parli del suo ultimo autoritratto.
«È del 2019 e ho scritto “io sono il robot. Il robot sono io”. Perché attraverso il robot arrivo a vedere totalmente come sono fatto io. Noi ora assumiamo la responsabilità di questo robot». 
Quindi non la spaventano realtà aumentata e intelligenza artificiale?
«Perché mi dovrebbero spaventare? La realtà è la realtà. Semmai mi spaventa l’ignoto caricato di simboli aggressivi, di simbologie demoniache. Voglio avere una luce chiara sulle cose».
Ora a cosa sta lavorando?
«Alla rigenerazione della società. Ma non è più un’opera d’arte individuale, personale. È un’attività che va condivisa. Il simbolo proposto proviene da una formula che ho messo a punto e che è la formula a tre cerchi della creazione. La creazione avviene per connessione di due elementi diversi, contrapposti e contrari, che trovano nella loro composizione la produzione di un terzo elemento centrale che non esisteva e supera la dualità». 
Cos’è lo specchio per lei?
«Lo specchio è il nulla. In sé lo specchio non produce niente, però contiene il tutto. Tutto può essere assorbito dallo specchio, è il principio della dualità, da cui si producono il tempo e lo spazio, da un rallentamento del nulla si va verso il tutto perché la velocità massima porta due punti a essere uno. Quando combaciano la fisicità scompare: non c’è più spazio e nemmeno tempo. Lo spazio è dato da una decelerazione del nulla. Questo lo posso dire io perché lavoro con lo specchio, la scienza invece lavora con la fisicità, con la materia. Quindi il massimo che può dire la scienza è che la massima velocità è quella della luce, ma la luce è di una lentezza spaventosa».
New York continua a essere la Mecca per voi artisti?
«In realtà ci sono tante di quelle Mecche, soprattutto dalle parti della Mecca. Pensiamo agli Emirati. Dove ci sono soldi e potere, viene richiesta una rappresentazione. Il potere chiede all’arte una rappresentazione, anche se astratta. Perché non c’è niente, nessun attestato che possa dare al potere la massima certificazione: tranne l’arte. Ma il punto è: l’arte vuole rappresentare il potere come ha sempre fatto oppure ha il potere per cambiare? O lavori per il potere o lavori per l’arte. L’arte, quella intesa con la maiuscola, è sempre stata al servizio del palazzo». 
Novecento compreso? 
«L’arte del Novecento è stata una grande illusione, così come lo è stata la Rivoluzione francese che alla fine ha portato a Napoleone. Prendiamo l’espressionismo americano che voleva essere un allontanamento da tutte le forme politico-economiche ed è diventato rappresentazione del liberismo economico. Dopo avere constatato che volere essere liberi dal sistema economico-politico-consumistico era un sogno, gli artisti pensarono che tanto valeva assumere quel sistema come condizione universale. Quindi la grande illusione continua».
Lei venne associato alla Pop Art americana.
«Io sono stato messo all’interno di quel gruppo, ed ero l’unico non americano, ma il mio lavoro non è basato sulla condizione universale del consumismo, ma sullo specchio universale».
Ragione per cui decise di rimanere in Europa nonostante le richieste d’Oltreoceano?
«Ho continuato ad andarci, quando è necessario vado in qualsiasi posto. Ma non accettai di traslocare in America perché avrebbe voluto dire accettare quella condizione sotto tutti i profili, anche politico. Io sono arrivato al massimo grado di oggettività e non di soggettività: i Quadri specchianti sono totalmente oggettivi e fenomenologici, non c’è nulla che dica io, al massimo posso vedere quello che il quadro mi dice, ma non sono io che dico al quadro quello che mi deve dire. È questa oggettività che ha accomunato il mio lavoro alla Pop Art americana. Qual era l’unico modo per dichiarare questo distacco? Era quello di superare la fenomenologia del marchio, rinunciare a quella omologazione. Cosa che feci».
Le sue opere hanno quotazioni altissime, talvolta milionarie.
«Non sono alte se le paragoniamo a tante altre. E ne sono contento perché non c’è nessuna spinta commerciale sul mio lavoro. Ci sono artisti che hanno giocato su questo: utilizzando le aste come mezzo fine a se stesso. Per me quello che succede, succede».