9 luglio 2019
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Biografia di Alice Munro
Alice Munro (Alice Ann Laidlaw), nata a Wingham (Ontario, Canada) il 10 luglio 1931 (88 anni). Scrittrice. Premio Nobel per la letteratura (2013). «La vita ordinaria è tutt’altro che ordinaria. Scrivo di persone normali, nel senso che non fanno grandi professioni, come la maggior parte di noi. Ma nessuno è ordinario» • Ascendenze irlandesi e scozzesi • «Sono nata nel 1931, durante la Depressione. Non so come sia stata in Europa, ma nel Nord America è stata disastrosa. Non eravamo disperatamente poveri. Eravamo mentalmente poveri. Coltivavamo il nostro cibo, le nostre verdure. E nostro padre allevava volpi argentate. Allora erano molto alla moda. Se lei guarda le fotografie di Eleanor Roosevelt, aveva sempre una stola di volpe attorno al collo. Mio padre aveva sognato di diventare ricco con questa attività, ma non ha avuto mai abbastanza soldi per investire, e non ci è riuscito. Poi, durante la guerra, quel tipo di pellicce è passato di moda. Ed è stato costretto ad andare a lavorare in una fabbrica, in una fonderia. Mia madre si è ammalata molto gravemente di Parkinson ed è vissuta per quasi vent’ anni in questa condizione disperata» (a Irene Bignardi). «“Quando cresci in un luogo dove non hai rivali, ti fai un’idea esagerata di quello che puoi arrivare a fare nella vita”. Può sembrare una frase arrogante, […] ma provate a immaginare il contesto in cui è cresciuta questa regina del racconto breve: […] una piccola fattoria in una zona abitata da prostitute e trafficanti illegali di alcolici, ai margini di un paese nello Stato del Western Ontario. Una vita sociale inesistente. Una madre che cade malata di Parkinson a quarant’anni e deve essere accudita dalla figlia di dodici. Dei vicini più o meno bigotti (metodisti, protestanti, presbiteriani, anglicani). Una pessima scuola di campagna dove i maschi ti rendono la vita un inferno. E un’educazione fondata sul fatto che quando hai finito di lavare, stirare, cucinare, ramazzare e accudire la mamma inferma, se hai la pretesa di mostrarti intelligente, ti prendi un sacco di cinghiate da papà» (Livia Manera). «Racconta che da bambina aveva pensato di strangolare sua sorella, ogni notte. L’amava, ma temeva di avere un raptus e farle del male. Perciò ogni sera si alzava dal letto e si allontanava. “Fino a quando incontrai mio padre, che non riusciva a dormire”. E cosa le disse? “Che era normale. Pensieri così capitano a tutti, ma non significano che siamo cattivi e poi facciamo davvero del male”. Suo padre la picchiava, e poi le dava queste pillole di saggezza? “Mi calmò e mi convinse. Fu una rivelazione, per me. […] Uno stesso rapporto può essere amoroso, rabbioso, ribelle. […] Quando ero piccola gli adulti non avevano proprio il tempo di pensare ai sentimenti dei bambini: avevano troppo da fare per trovare il modo di campare”» (Paolo Mastrolilli). Già nella prima infanzia era nata in lei la passione per la scrittura. «"Ho cominciato a interessarmi alla lettura molto presto, quando qualcuno mi lesse una storia di Hans Christian Andersen: La sirenetta; ora, non so se ricorda La sirenetta, ma è una storia tristissima. […] Appena ebbi finito la storia, io corsi fuori e mi misi a girare intorno alla casa di mattoni dove abitavamo allora, e mi inventai una fiaba a lieto fine, perché mi pareva che glielo si dovesse, alla sirenetta, e chissà come non mi passò per la mente che era una versione alternativa che avevo inventato solo per me e non avrebbe mai circolato: a me pareva comunque di aver fatto del mio meglio, e che da allora in poi la sirenetta avrebbe sposato il principe, e che sarebbero vissuti per sempre felici e contenti, come lei senza dubbio meritava. […] Non mi preoccupavo del fatto che forse il resto del mondo non avrebbe mai conosciuto la versione nuova, perché dopo averla pensata mi sembrava che fosse stata pubblicata. Ecco. Ho cominciato presto a scrivere, come vede”. […] “Inventavo storie tutto il tempo. Per andare a scuola dovevo fare una lunga camminata, e durante la camminata di solito inventavo storie. Quando divenni più grandi le storie furono molto più incentrate su me stessa, come fossi un’eroina che si trovasse in questa o quella situazione, e non mi importava che le storie non sarebbero state immediatamente diffuse nel mondo, e non so se pensassi mai al fatto che altre persone potessero conoscerle o leggerle. Ciò che mi importava era proprio la storia in sé, in genere una storia molto soddisfacente dal mio punto di vista”. […] “Ovviamente i primi tempi la cosa importante era il lieto fine. Non tolleravo finali infelici per le mie eroine in nessun caso. In seguito iniziai a leggere cose come Cime tempestose, e avevano finali molto molto infelici, così cambiai completamente idea e virai sul tragico”. […] “Inizi scrivendo di bellissime e giovani principesse, e poi scrivi di casalinghe e bambini, e in seguito di donne vecchie. Questo capita semplicemente, senza che tu necessariamente ti sforzi di fare qualcosa per cambiarlo. A cambiare è il tuo punto di vista”. […] Che ruolo ha avuto la figura di sua madre? "Il rapporto con mia madre è stato sempre molto complicato, perché lei era malata di Parkinson e aveva bisogno di costante aiuto, aveva difficoltà di parola, la gente non la capiva quando parlava eppure lei amava essere in compagnia, stare in mezzo agli altri, ma naturalmente il suo problema glielo impediva. Perciò la sua persona mi metteva in imbarazzo; le volevo bene, ma per certi versi non volevo essere identificata con lei, detestavo espormi ripetendo le cose che voleva farmi dire al posto suo. È stato difficile, come sarebbe per qualsiasi adolescente interagire con un genitore o una persona in qualche modo menomata. A quell’età si vorrebbe essere completamente liberi da problemi simili"» (Stefan Åsberg). «“Io ero la figlia più grande. E immagino che, se fossi stata una brava figlia, una volta finito il liceo sarei rimasta a casa, con mia madre e mio fratello e mia sorella più piccoli. Invece ho vinto una borsa di studio e me ne sono andata. All’università. Per la verità, non avevo abbastanza denaro. Avevo soldi per tre anni e non per quattro. Dovevo trovare qualche forma di lavoro. Ho avuto dei premi, ma non bastavano. Così ho deciso che la cosa migliore da fare di fare era sposarmi”. Scherza? Sposarsi per sopravvivere? “No, ero anche innamorata. Sa, ai ragazzi della mia città non piacevo affatto, perché ero così strana, una che leggeva sempre. Ma è successo che all’università ho incontrato un ragazzo capace di accettare il mio modo di essere. Molti ragazzi ai miei tempi non potevano sopportare che le loro donne si impegnassero seriamente in un lavoro. Lui invece, Jim Munro, ne era felicissimo, era deliziato da me, era molto bello, molto carino. Ho preso il suo nome e me lo sono tenuto perché è meglio del mio. Abbiamo avuto una bambina, Sheila, poi una seconda bambina, Catherine, che è morta subito, poi una terza, Jeannie, poi Andrea, che è nata nove anni dopo. Vivevamo a Vancouver, nei sobborghi. C’erano all’epoca in Canada delle piccole riviste e una radio che promuoveva la letteratura nazionale. Ho cominciato a vendere qualche racconto, ad essere conosciuta nei giri che si occupavano di letteratura…”. […] Difficile, per una donna, scrivere nel suo paese? “Non difficile: quasi impossibile. Ero una giovane moglie e madre. Gli uomini non mi prendevano sul serio. Be’, veramente, alcuni sì. Per esempio Robert Weaver, l’uomo a cui devo quasi tutto, e che ora non c’è più. Dirigeva una rivista, e non ha mai smesso di incoraggiarmi. Ma, quando andavo agli incontri con gli altri scrittori, era un club maschile. E poi c’erano le loro mogli che non mi sopportavano”. Perché era troppo bella? “Non mi sono mai considerata bella. No. Perché ero donna e facevo il mestiere dei loro mariti. Le donne, allora, erano o mogli o ornamenti. Nessuno mi prendeva sul serio come scrittrice. Ero lontana da tutto. Vivevo ai margini. Scrivevo sulle cose sbagliate, non scrivevo di guerra, di politica – ed era ancora l’epoca Hemingway”» (Bignardi). «All’inizio degli anni Sessanta Alice Munro inviava sei delle sue storie, il nucleo di ciò che sarebbe diventato Danza delle ombre felici, a Jack McClelland, allora il più quotato editore canadese. Il manoscritto fu restituito alla mittente con parole di elogio ma con un secco “no”. Le raccolte di racconti, scriveva McClelland, non vanno (do not sell), e non solo: esse non costituiscono un buon esordio per uno scrittore. Meglio finire un romanzo, nel caso ce ne fosse uno già in gestazione – egli continuava –, e poi passare ai racconti. […] Le cose poi andranno diversamente, e la pregevolissima Danza uscirà presso un altro editore nel 1968. Nel frattempo, il consiglio di McClelland non viene dimenticato e Munro inizia a pensare a un romanzo, anche se, dirà in seguito, lei riesce a vedere la realtà e le persone in riquadri da “istantanee” (snapshots) e non in un fluire a lungo raggio o in una linearità da Bildung. E quindi da un compromesso con le sue doti più istintive nasce La vita delle ragazze e delle donne. […] Pubblicato nel 1971 da McGraw-Hill, lo stesso editore che aveva dato alle stampe Danza delle ombre felici, lo pseudo-romanzo di Alice Munro è in effetti, nella sostanza, una storia di formazione, narrata in prima persona. In otto episodi dislocati nel tempo si segue la crescita della protagonista, Del Jordan, dall’infanzia alla fine dell’adolescenza (da ragazzina a donna, con ambizioni letterarie), poco prima che, all’inizio degli anni Cinquanta, una borsa di studio la porti lontana dalla nativa Jubilee (la Wingham di Munro), sul fiume Wawanash (il Maitland: locus di futuri misteri). C’è, dunque, la parvenza del romanzo, sostenuta dall’andirivieni di alcuni personaggi, ma in realtà la formula osservata in questi ritagli di vita quasi autobiografici è quella selettiva del racconto. Non siamo ancora alle altezze tecniche delle raccolte future, quelle pubblicate fra gli anni Ottanta e Novanta. Anzi, fatta l’eccezione di alcuni casi, qui sembra registrarsi una flessione persino rispetto ai primi quindici magnifici racconti. Munro ripeterà l’esperimento con risultati più brillanti qualche anno dopo con Chi ti credi di essere? (1978), anch’esso costruito su momenti di esistenza di un unico personaggio, la giovane Rose, alle prese con gli stessi disagi esperiti da Del Jordan e alla fine, come Del, in fuga verso altre mete. Entrambi i volumi – e soprattutto il primo – fanno da soglia al mondo che Munro va riscoprendo a posteriori, partendo dalle fondamenta della sua infanzia. Per conoscerlo meglio, quel mondo – rappresentato sempre sul filo dell’insondabilità –, è dalla Vita delle ragazze e delle donne che si deve incominciare. Sì, perché è qui che Munro allestisce il suo teatro, lo stesso che continuerà a esplorare anche in seguito. […] È in Epilogo: il fotografo, l’ultimo, perturbante racconto della Vita delle ragazze e delle donne, che, in un’affermazione più volte citata, si fissa il cardine di una poetica che Munro manterrà inalterata: “Le vite delle persone, a Jubilee come altrove, erano monotone, semplici, sorprendenti e insondabili … caverne profonde dai pavimenti in linoleum”. E su questa constatazione la narratrice Del (e Rose) si arresta, abbandonando l’arena del suo battesimo alla vita in una città ironicamente “giubilare”, alla quale però, forse come Rose, finirà per tornare. Un arco narrativo si chiude, come potrebbe avvenire in un romanzo. Se c’è storia di formazione, […] restano tuttavia chiuse le “caverne profonde”. Ed è su queste che Munro ricomincerà il suo viaggio nelle raccolte successive, a partire da Il percorso dell’amore (1986), con altro metodo e approccio: entrambi più slegati dall’autobiografismo, più frammentati, più ellittici, e dall’andamento multidirezionale, deviante da o convergente su possibili fili in trasparenza, piccole scintille sulla soglia dell’inattingibile sotto quello strato di linoleum ancora da scrostare» (Caterina Ricciardi). Tra il 1968 e il 2012 Alice Munro ha dato alle stampe quattordici libri, tutti costituiti da raccolte di racconti (generalmente autonomi, ma talvolta – come nel caso dei due cosiddetti romanzi – legati tra loro), «composte assai elaboratamente da una scrittrice che come pochi suoi contemporanei coniuga una precisione di esecuzione lenta e meditata, da miniaturista, con improvvisi lampi di estro, che per il contrasto con quella aggrediscono e spiazzano il lettore. Dopodiché, certo: il mondo di Alice Munro è un piccolo mondo, molto circoscritto, nonché marginale – aggettivo che la Munro ha applicato spesso a se stessa e al suo punto di osservazione defilato –; marginale e, anche per questo, femminile. Infinita è la varietà delle sue mogli, sorelle, figlie, matrigne, suocere, cognate e via dicendo, senza nulla togliere beninteso alla sottigliezza con cui ella entra nella testa dei suoi, di solito emotivamente più limitati, maschi. Marginale è quell’angolo del Canada rurale dove crebbe, […] e al quale dopo essersene emancipata […] tornò per trascorrere la parte matura e riflessiva della sua esistenza. A lungo la sua vocazione dovette lottare con la necessità di allevare tre figli (“per questo ho adottato la forma breve del racconto: non avevo mai tempo”). Ma, a partire dagli anni Ottanta, […] grazie anche a un paio di incarichi universitari, poté dedicarsi a tempo pieno all’attività per cui era nata. Questa attività consisteva nell’osservare passato e presente degli abitanti dei luoghi che così intimamente conosceva, la propria cerchia familiare non esclusa, e i luoghi stessi, quel Canada rurale, duro, poco pittoresco» (Masolino D’Amico). Nell’ultima raccolta di racconti, Uscirne vivi, risalente al 2012 (in Italia è stata però pubblicata nel 2014, presso Einaudi), «c’è una parte conclusiva autobiografica. Una nota, intitolata Finale in italiano, avverte i lettori: “Gli ultimi quattro lavori di questo libro non sono davvero delle storie. Formano una unità separata, che è autobiografica nei sentimenti, anche se non interamente tale nei fatti, in alcuni casi. Credo che siano le prime e le ultime cose – e le più vicine – che ho da dire sulla mia vita”. […] Allora abbiamo chiamato la Munro nella sua casa dell’Ontario, a due passi dal lago Huron, e le abbiamo chiesto: perché ha sentito il bisogno di pubblicare queste storie autobiografiche? “Perché ho 81 anni, e potrei non scrivere più. Mi è parso che questi pezzi fossero la maniera giusta di riassumere il tutto. […] O magari continuerò a scrivere, ma cambiando completamente nome e carattere”. È il peso di questo lavoro, la fatica di scrivere, la stanchezza? “L’età”» (Mastrolilli). Ribadì la sua intenzione di non scrivere più nel giugno 2013, poco dopo essere rimasta vedova del suo secondo marito. «Al suo personale mondo di memorie Alice Munro ha attinto a piene mani. S’è forse disseccata la fonte della sua fantasia e immaginazione? Ha forse detto tutto? Chissà. In un’intervista di qualche tempo fa, è lei stessa a sottolineare il paradosso: ha scritto contro tutto e tutti, le figlie, la casa, il decoro borghese… E ora, ora che non deve combattere, che non sottrae il tempo e l’attenzione a nessuno, ora per l’appunto si prende la libertà di smettere» (Nadia Fusini). Quello stesso autunno, fu proclamata vincitrice del premio Nobel per la letteratura. «Non essendo riusciti ad avvertirla personalmente i giurati dell’Accademia hanno dovuto lasciarle un messaggio in segreteria. "Mi ero dimenticata di questa cosa, ma è meraviglioso" – le sue prime parole quando è stata svegliata alle 4 del mattino» (Pasquale Notargiacomo). «Tredicesima donna e prima canadese a vincere il Nobel per la Letteratura, Alice Munro raggiunge anche un altro primato con la vittoria del premio dell’Accademia Reale svedese: quello di veder riconosciuta per la prima volta la forma del racconto, di cui lei è assoluta maestra, ridando dignità a un genere spesso accompagnato da quel pregiudizio che ha seguìto un po’ anche la sua carriera» (Mastrolilli) • «Ha detto spesso che “è peggio se sei una donna”. Ma anche più divertente. Come quella volta, nel 1961, in cui un quotidiano fece su di lei un titolo memorabile a tre colonne: “Casalinga trova il tempo di scrivere racconti”» (Annalena Benini) • «Quando le figlie dì Alice Munro erano piccole, lei scriveva fino all’una di notte e poi si alzava prima dell’alba e pensava: forse muoio, mi verrà un attacco di cuore; e poi: be’, se anche morissi ho scritto già molto, ci penseranno loro a far uscire tutto. La figlia di due anni le andava incontro mentre lei stava alla macchina da scrivere, e Alice con una mano la scansava e con l’altra continuava a battere. “Ero una giovane donna spietata”, ha detto: seguiva il suo fuoco, la sua vocazione, obbediva al padrone della sua vita. In nome di quell’obbedienza, di quel richiamo, lasciava per terra tante piccole cose infrante: “una parte di me è stata assente”, ha detto, ed è la parte infuocata, la parte che esce dal mondo reale per inventarne uno nuovo. Sheila Munro, sua figlia, ha scritto che la madre non c’era mai davvero completamente, nemmeno quando gonfiava i palloncini per le feste di compleanno: ha scritto che era davvero felice, davvero tutta se stessa, solo quando si sedeva al tavolo a scrivere e non rispondeva più a nessuna domanda» (Benini). «La vita reale non erano la mia casa, i figli, il marito. Ciò che era reale era la mia scrittura, come si sviluppava nella mia mente e poi sulla pagina. Una realtà a cui non ho potuto rinunciare, mai» • «“Non tornai a casa per la sua ultima malattia e nemmeno per il suo funerale”, scrive Alice Munro di sua madre. Aveva due bambine piccole, il viaggio era costoso, suo marito disprezzava le formalità. Ma non era colpa del marito: anche a lei sembrava una formalità. Il funerale di sua madre, la donna che aveva occupato ogni angolo della sua vita per molto tempo, […] non era più così centrale, così inevitabile. Tutto il posto era già riempito da qualcos’altro, e si trova sempre una giustificazione, poi, per i nostri atti mancati. “Di certe cose diciamo che non si possono perdonare, o che non ce le perdoneremo mai. E invece poi lo facciamo, lo facciamo di continuo”» (Benini) • «È minuta, fragile, civettuola, attenta a piccoli colpi di charme nell’abbigliamento per altro molto tradizionale – un cappellino da film anni Trenta, la montatura degli occhiali illuminata da pagliuzze argentee che danno un tocco di eccentricità in più, i capelli bianchi che la illuminano» (Bignardi) • «Nel tipico racconto della Munro, che non è troppo breve – in una raccolta possono essercene sei o sette, massimo dieci – c’è uno scontro tra parenti, talvolta sconfinando nella violenza (per esempio, punizioni corporali al limite della crudeltà), ma più spesso con tensioni represse, che non arrivano alla superficie. […] Nei grandi racconti moderni un personaggio capisce ovvero si rende conto, magari senza veramente accorgersene, di qualcosa che credeva di ignorare. Questo accade in decine e decine di episodi che la Munro ha evocato negli anni» (D’Amico). «La prosa di Alice Munro è un mondo di segreti decifrati. La riempiono momenti d’essere che sembrerebbero impossibili da esprimere con la lucidità delle parole, come lo sono i frammenti di ogni vita persi nell’indeterminatezza delle esperienze. Ciascuno potrebbe rintracciarli in sé, se sapesse scandagliare le proprie sensazioni ed esplorare per intero la memoria. Da una materia tanto piena deriva ciò che siamo: individui differenti ma imparentati da quella “sostanza dell’umano” che l’autrice canadese riesce a cogliere. E […] non importa che sia lontana per geografia, lingua o generazione, né che sia uomo o donna. Conta il percorso dell’emozione, che nella sua scrittura diviene un fatto, un esito concreto, in grado di porre sulla scena della consapevolezza un messaggio chiaro ed essenziale, estraneo a sfoggi esplicativi e a didascalie morali. Qualcosa che buca la pagina come una freccia e ci colpisce intimamente, grazie a una tecnica superba e non sfoggiata. Come la grande letteratura sa fare» (Leonetta Bentivoglio). «Niente effetti speciali, nei racconti di Alice Munro. Bastano le parole giuste al posto giusto, sommate a un grande spirito di osservazione (con la perfidia che ne segue: impossibile guardare gli altri e trovarli completamente di nostro gradimento). Non ha interesse per il proprio ombelico, lo sperimentalismo non sa dove stia. Fa venire in mente i racconti di Cechov: non tanto per la secchezza quanto per la bravura nel cominciare storie che sembrano banali, e rigirarle in tragedia poche righe dopo. Storie di famiglie, di litigi, di bambini, di delusioni, di amori quasi mai felici, di signorine che cercano di cavarsela in città, di maschi che “se si portano il lavoro a casa, la casa si risistema intorno a loro” (provate a farlo da femmine, non c’è verso). Fa da sfondo il Canada, ma potremmo essere dappertutto. […] Una scrittrice per lettori, in controtendenza con la sfinente categoria degli scrittori amati solo da altri scrittori» (Mariarosa Mancuso). «Non esiste il racconto secondo la Munro, ma ne esistono molte forme e incarnazioni. […] Da Henry James, il padre di tutti coloro che, nei tempi moderni, raccontano storie, Alice Munro ha imparato che la prima qualità di un racconto è l’enigma: ogni storia è un mistero, che la collaborazione dell’autore e del lettore portano lentamente alla luce. Appena entriamo in un racconto, c’è un piccolo enigma, e poi un altro piccolo enigma, e poi un terzo e un quarto. […] L’inatteso si nasconde in ogni riga; oppure si scatena la più romanzesca e melodrammatica inverosimiglianza. Alla fine, il vero modello sembra essere il grande genio, tenero e tenebroso, che ha ispirato la letteratura americana: Nathaniel Hawthorne. […] La Munro possiede un vero genio per gli oggetti e gli interni famigliari: genio che sembra discendere dal più grande pittore di interni che sia mai esistito, Balzac, sebbene le nostre case siano tanto più vuote di quelle del 1830 o del 1840. La Munro conosce il peso, il colore, la massa, il volume, il rilievo di ogni mobile, e il rapporto che intrattiene con ogni persona della famiglia. Sebbene molti sostengano che il mondo di oggi sia astratto e disincarnato, lei continua, imperterrita, a raccogliere letti, vestiti e tartine nelle sue storie fantastiche. La Munro ha due passioni: quella per le deviazioni narrative e quella per i bianchi. Molto spesso, quando racconta un fatto, non narra quel fatto e i sentimenti e le sensazioni che esso suscita: ma qualcosa di apparentemente laterale: invece di analizzare le sensazioni di una donna che sta per morire di cancro, descrive una bottega di calzolaio o un cane che si aggira in un cortile; suscitando in noi un’impressione di casualità e di gratuità, che ci sembra assolutamente necessaria. O, all’improvviso, apre uno spazio bianco in un racconto. In quel bianco trascorrono anni, decenni: un abisso allontana il presente e il passato: il tempo passa senza che nessuno se ne accorga; e noi avvertiamo, al tempo stesso, il senso della continuità e quello della lacerazione che formano il tessuto diseguale della nostra vita. Vi sono grandi scrittori, come Dostoevskij, che prima di cominciare a scrivere sono posseduti da grandiose idee sul mondo, sebbene poi la loro immaginazione, che si prende gioco di qualsiasi idea, si impossessi delle idee e le trasformi fino ad architettare quel labirinto quasi incomprensibile di relazioni che è un vero romanzo. La mente della Munro è pura: nessuna idea preconcetta macchia o adombra la sua obbiettività straordinaria, che forse qualcuno potrebbe paragonare a quella di Dio o della morte. Quando la leggiamo, tutto ci sembra incantevole: ma lo sfondo, vasto e intermittente, che si avverte in ogni riga, è pieno di minacce – morti sinistre, destini incomprensibili, dolori che nessuno potrebbe sopportare, disastri, irruzioni di qualcosa che assomiglia all’amore, le tremende ferite che ci infliggono i morti; o, al contrario, beffe crudeli che realizzano i piani di colei che, forse, porta il nome di Provvidenza. Non sappiamo cosa la Munro pensi della vita: suppongo che accetti religiosamente tutto ciò che accade, e nutra una “ferrea devozione” verso quello che vede; eppure cerchi, con calma, lentamente e segretamente, di mettere ordine nell’esistenza. Sebbene da nessuna parte si intraveda una luce, l’arte è ancora, per lei, un timido tentativo di mettere ordine nelle cose scritte e, dunque, anche in quelle che sono accadute, accadono ed accadranno nel mondo» (Pietro Citati) • «Uno stile “che deve essere come acqua trasparente, e sincero, anche se uno scrittore non sarà mai sincero fino in fondo”. E un’indagine emotiva “che mostri quanto complicate sono le cose, e sorprendenti, perché è così che io trovo la vita”, dice Alice Munro. “Voglio emozionare le persone con delle sorprese, ma non dei trucchi. Voglio che i lettori pensino: sì, la vita è così. Perché è la reazione che ho io davanti alla scrittura che amo di più. Una sensazione di meraviglioso sbalordimento. Non il sentimento di felicità che ti dà un libro scritto per suscitare felicità, ma una sensazione di gratitudine per avere visto la vita in modo così intenso, attraverso la scrittura”» (Manera) • «Io non vedo le cose nel modo giusto per scrivere un romanzo… Mi piace vedere la fine di ogni lavoro, e sapere che sarà terminato per esempio entro Natale, e non capisco come gli altri scrittori riescano a lavorare a progetti così lunghi e aperti come i romanzi. Potresti anche morire mentre stai scrivendo un romanzo di cinquecento pagine». «Il racconto è una casa. Ci entri e ci rimani per un po’, andando avanti e indietro e sistemandoti dove ti pare, scoprendo i rapporti tra camere e corridoio, e come il mondo esterno viene alterato se lo si guarda da queste finestre… La casa delimita lo spazio e crea collegamenti tra uno spazio chiuso e l’altro e fa vedere in modo nuovo quello che c’è fuori. Questo è il modo meno approssimativo che possiedo per spiegare come funziona una storia per me, e come vorrei che le mie storie funzionassero per gli altri». «A volte trovo l’inizio di una storia in un ricordo, un aneddoto, ma è qualcosa che poi si perde e non è più riconoscibile nella versione finale. Ho sempre bisogno di conoscere il mio personaggio in profondità: che vestiti gli piacciono, com’era ai tempi della scuola, tutte queste cose. E io so che cosa gli è successo prima e che cosa gli succederà dopo il pezzo di vita che sto raccontando. Non sono capace di guardarlo solo qui e ora, imprigionato nella tensione del momento» • «In un’intervista di qualche anno fa alla Paris Review, incalzata sulla questione, la Munro rispondeva: “Oh, spero di scrivere un romanzo, spero di non morire lasciando tutti questi frammenti. È molto difficile non abbandonarsi alla sensazione di aver lasciato dei frammenti se quello che lasci sono solo racconti sparsi”. Chissà se a questo punto della carriera, ora che (stando alle sue parole) ha chiuso con la narrativa, Alice Munro è consapevole che quel romanzo tanto agognato lo ha scritto, quasi senza saperlo. Quel romanzo non è che l’insieme dei suoi racconti. E viene da chiedersi se non sia proprio la frammentarietà – la frammentarietà che tanto la fa soffrire – ad averle consentito di realizzare il sogno balzacchiano, creando un’opera autonoma come un ecosistema. Come se la mancanza di grandi ambizioni romanzesche le avesse permesso di raggiungere una compattezza encomiabile» (Alessandro Piperno) • «“In genere si pensa che una scrittrice donna debba scrivere come Jane Austen. E Jane Austen è bravissima. Ma per qualcuna della mia classe sociale non è interessante come le Brontë. Io non sono mai stata interessata alla società ben educata. Volevo che la gente avesse dei destini tragici e grandi emozioni. Quando i bambini erano piccoli ho letto come una disperata, tutto, ma non sono mai stata influenzata dai classici del ventesimo secolo come Proust, Mann, la letteratura nobile, sa, perché non capivo quel tipo di società. No, gli autori che mi hanno spinta a scrivere sono Flannery O’Connor, Carson McCullers, Eudora Welty: scrittrici che raccontano le piccole città, la povera gente. Il mio territorio. Perché non solo ho avuto la fortuna di nascere povera, ma di vivere in un Paese che tratta i poveri con dignità”. Ci sono state anche altre influenze. “Quando avevo sedici anni, ho avuto un lavoro come cameriera, presso una famiglia, durante le vacanze su un lago. Eravamo in un posto molto isolato. Il padrone di casa mi ha dato da leggere le Sette storie gotiche di Karen Blixen. E le ho amate moltissimo, anche se poi più tardi ho pensato che non mi piaceva il suo punto di vista – quello di un’aristocratica, e non solo: una che pensava che all’aristocrazia vanno riservati trattamenti speciali. Quando leggo una scrittrice così penso sempre che nei suoi racconti io sarei la ragazza che sta in cucina. Ma è anche grazie a lei se ho scoperto la bellezza della forma-racconto – senza tuttavia mai cercare di imitare quella prosa. È così facile il rischio di fare la parodia del bello stile”. Ma lei fa dello stile: la lingua che usa è ricca, precisa, a volte persino preziosa nella scelta lessicale. “È un fatto canadese. La lingua è rimasta protetta in una capsula che non è tanto cambiata”» (Bignardi) • «L’obiettivo della mia scrittura è sempre stato offrire una rivelazione su cosa è davvero la vita». «Lei ha detto che da ragazza sentiva di non adattarsi ad alcun luogo, e sapeva che sarebbe scappata. Ci è riuscita? “Direi di sì, con la mia vita letteraria e i miei due matrimoni. Eppure adesso vivo a venti chilometri dal posto dove sono cresciuta. All’inizio sono tornata perché i miei genitori erano invecchiati e avevano bisogno di assistenza. Poi però sono rimasta perché amo questo paesaggio, non come scenario, ma come cosa intimamente nota”» (Mastrolilli). «Che cosa c’è di interessante nella descrizione della vita della provincia canadese? "Basta viverci per saperlo. Sono dell’avviso che qualsiasi vita e qualsiasi posto possano essere interessanti. E poi non credo che sarei stata altrettanto coraggiosa se fossi vissuta in città, in competizione con altri a un livello culturalmente più alto. Con questo non ho dovuto misurarmi. Ero la sola persona di mia conoscenza che scrivesse racconti, anche se non li raccontavo a nessuno, e per quanto ne sapessi, almeno per qualche tempo, ero la sola persona al mondo che fosse capace di farlo". […] Aveva mai pensato di vincere il Nobel? "Oh, no, mai! Una donna! D’accordo, qualche donna l’ha avuto. Insomma, questo onore mi fa felice, molto, ma non ci avevo mai pensato, forse perché gli scrittori tendono a sottovalutare il proprio lavoro, specie a cose fatte. Comunque non si va in giro a dire agli amici: sai, forse vincerò il premio Nobel. Si tende a non farlo"» (Åsberg).