la Repubblica, 9 luglio 2019
Racconto della tragedia di Chernobyl
Quando lo incontrai, quattro anni dopo il disastro, l’uomo che volò sulla bomba si guardava allo specchio ogni mattina, per vedere se la condanna invisibile si era mossa dal fondo del suo corpo oppure se era ferma, nascosta e in attesa. Spiandosi giorno dopo giorno, Gurghen Karapetjan, pilota collaudatore di elicotteri, si era visto venire i capelli bianchi, si era accorto di dimagrire un poco, con gli occhi chiari che sembravano sempre più grandi sulla faccia scura da armeno di 53 anni, le mani secche e dure che prima di partire provavano sempre la resistenza dei cavi col carico sospeso. Alle otto del mattino eravamo già in aria con l’elicottero, volare tra aprile e maggio sui campi della Russia è la cosa più bella del mondo, sembra di veder arretrare l’inverno mentre viene avanti il verde timido della primavera. Ma mentre ci fermavamo sopra Zagorsk e le sue cupole azzurre, per voltare indietro, un altro elicottero partiva proprio quel giorno da Besançon in Francia verso Lione, portando il midollo spinale di un donatore. Da Lione subito un altro volo in aereo verso Seattle, in America, dove il copilota di Karapetjan, Anatolij Grishchenko, condannato a morte dalla radioattività, aspettava in ospedale il trapianto. I due erano insieme, quel giorno di quattro anni prima, nel volo folle sopra l’inferno di Chernobyl.
La catastrofe era entrata nella loro vita quando il comando li aveva convocati all’aeroporto moscovita di Vnukovo alle due e mezza di notte per una partenza improvvisa verso l’Ucraina senza spiegazioni, su un aereo di linea deserto, con appena 11 passeggeri e 143 posti vuoti: «Nessuno vuole più andare a Kiev – aveva spiegato sottovoce la hostess – da laggiù tutti scappano, è successo qualcosa». Arrivati alle officine Antonov di Kiev capirono: dovevano alzarsi in volo sopra i boschi della tragedia, spingendosi fino a guardare dentro il reattore spento, muovendosi nella direzione opposta a quella dei contadini che fuggivano dalla morte invisibile abbandonando le case e i paesi, uscendo per sempre dalle stalle e dai kolchoz. Le autorità sovietiche avevano pensato a un rimedio primordiale: l’elicottero doveva fermarsi sopra il reattore scoperto per chiuderlo calando un tappo d’acciaio e frenare la fuga di radiazioni. Più che un tappo, il bestione di ferro che l’officina stava preparando con turni di giorno e di notte sembrava un coperchio gigantesco, con un diametro di 19 metri e 15 tonnellate di peso, simbolo involontario della fretta e dell’ansia, dell’approssimazione e della confusione con cui l’Urss si stava muovendo a tentoni davanti alla catastrofe ecologica più spaventosa della sua storia.
I piloti partono per una prima ricognizione dell’invisibile. Perché la ragione – raccontava Gurghen – martellava con i suoi allarmi, ma i sensi, gli occhi, il corpo e l’olfatto non registravano nessun segnale anomalo, come se mancasse la conferma fisica del disastro. Il vetro dell’elicottero inquadrava il cielo azzurro, i campi ancora ordinati, gli alberi rosa delle mele paradiso e lo spettacolo della terra ucraina nera e grassa, con l’erba verde. L’unico segno del cataclisma è il vuoto: per gli 80 chilometri di volo da Kiev non si vede nessuno, una sensazione mai provata prima, campi e filari deserti, villaggi solitari e intatti, strade abbandonate, tanto che l’elicottero militare M26 schermato da una lastra di cemento si abbassa due volte su Apacici girando in tondo, sopraquelle panche allineate contro il muro di case deserte, per misurare l’abbandono.
Scendono a Chernobyl muovendosi come marziani, senza toccare niente, tenendo le mani in alto, sollevando i piedi dall’erba ad ogni passo, come se la radiazione fosse una macchia. Mezz’ora dopo, quando ripartono diretti alla centrale del disastro, il livello della radioattività segna dai 200 ai 400 röntgen, e Karapetjan sa che il pericolo comincia sopra quota 25. Al centro dell’inferno, i due restano stupefatti per la rovina ciclopica della centrale, con tutto l’impianto sconvolto, il reattore che sembra bombardato, il tetto crollato giù a destra. Per tre settimane continuano a volare sopra la zona proibita, prendendo ogni volta una pastiglia dai medici. Poi la decisione: tracciano un cerchio sulla pista dell’aeroporto di Gostomel e qui fanno le prove per calare il tappo sul reattore scoppiato senza fermarsi sul fuoco radioattivo più di tre minuti, manovrando un cavo di 250 metri appeso all’elicottero. Provano e riprovano, accorciano il cavo a 150 metri, ce la fanno, ormai ad ogni passaggio in volo centrano il bersaglio.
Nelle prove hanno tempo per vedere la natura che muore. Gurghen mi ha raccontato che non dimenticherà mai quei colori. Erano lingue marroni, bizzarre e irregolari, che entravano nelle foresta di pini verdi, e quando l’elicottero si abbassa i piloti scoprono che sono alberi bruciati dalla radiazione, morti, uccisi dalla polvere contaminata. Una sera, mentre tornano da Cernigovo a Kiev attraverso Chernobyl, appena dopo il tramonto, vedono che dal reattore sale all’improvviso una fascia luminosa come sparata da un riflettore, un’apparizione minacciosa e bellissima.
Gli esperti spiegheranno che è aria ionizzata, ma per i piloti che hanno incontrato in volo quell’energia bianca e celeste alta 200 metri nel cielo, quello resterà per sempre il segno visibile della radiazija.
Finché il 19 settembre 1986 i medici visitano Grishchenko che non sta più in piedi, lo rivisitano e non hanno più dubbi: la leucemia lo sta uccidendo. Karapetjan ogni mese passa una settimana con una strana febbre addosso, ma non può fermarsi, ha una battaglia da condurre fino in fondo, vuole che l’Urss riconosca che il male del suo amico è la morte di Chernobyl. Scrive a Gorbaciov, va a Parigi al salone aeronautico e chiede la solidarietà ai piloti americani per il pilota sovietico che muore, ottiene i permessi per gli Stati Uniti, si può sperare. Ci sarà il trapianto, ma alla fine Grishchenko morirà a 53 anni. La radiazija ha vinto. La stessa che è andata a visitare Gurghen Karapetjan mentre dormiva, dopo essere rimasto solo: lui ha sognato il reattore sventrato e quando s’è alzata una colonna di luce azzurra, si è svegliato angosciato, perché sapeva che è vero.
In quei voli, mi ha raccontato il pilota, vedevano le mucche abbandonate nella “Opasnaja Zona”, l’area proibita ed evacuata di mille chilometri quadrati, i cani radioattivi uccisi dalla fame e dai cecchini, la foresta rossa, “Rudyj lis”, investita dal fallout radioattivo che prima ha fatto virare pini e betulle tra la porpora e la ruggine, poi li ha portati a morire. Sussurri e paure ingigantiscono nel vuoto dei paesi abbandonati con l’evacuazione di 116 mila abitanti, nei campi deserti. La prima volta che sono andato a Chernobyl Vladimir Kolinko, uno dei primi a correre alla centrale dopo il disastro, mi ha parlato di mostri moribondi, animali deformi, creature devastate, figlie della nuvola, e mi ha mostrato un test compiuto al kolchoz Petrovski, con i suoi 350 bovini e 87 maiali: nei cinque anni precedenti il disastro qui si erano registrati solo tre casi di malformazione, tutti tra i piccoli suini, con i vitelli indenni. Un anno dopo l’esplosione della centrale tra gli animali erano nati 64 mostri, 37 maialini e 27 vitelli. Nei primi mesi dell’88, ancora peggio: 41 maiali deformi, 35 bovini. E le deformazioni, mi ha spiegato il professor Boris Prister, presidente del Consiglio per la radiologia all’Accademia di scienze agricole, possono manifestarsi anche nella sesta o nella settima generazione.
Ma tutto questo non contava per i vecchi contadini che non riuscivano a vivere evacuati, lontani dalle loro case e dai campi. Li avevano sfollati d’urgenza la notte del 26 aprile 1986, con gli altoparlanti che ripetevano gli ordini del municipio e del partito: «Attenzione, attenzione, fidati compagni. In seguito a un incidente alla centrale la quantità di radiazioni nell’aria è aumentata sopra la norma. Grazie al partito comunista e alla polizia sovietica sono state prese le misure d’emergenza. Ma per assicurare una completa sicurezza per il popolo è necessario evacuare le case. Per favore, non dimenticate di spegnere tutti gli impianti elettrici e del gas, di chiudere i rubinetti e di serrare tutte le finestre». Ma la radiazija non si vede, i vecchi non ci credono. Forme ingenue, spontanee e testarde di vita contaminata rinascono subito dovunque. A 80 chilometri dalla centrale, nel villaggio Demidov, ho visto raccogliere le carote dalla terra scura, a Ljutets, davanti al cartello stradale che indica Chernobyl, mettevano nelle casse le barbabietole. A Ivankov alle dieci del mattino c’erano due uomini che pescavano nel fiume Teterev. E ad Apacici 96 contadini nell’autunno 1988 hanno riaperto le case e le stalle, sfidando la legge, la medicina e la paura: erano l’avanguardia di un esodo alla rovescia, verso la radioattività, che ha riportato in pochi mesi 1.200 contadini nei villaggi da cui erano stati sfollati in 135 mila.
Sono tornati di notte, seguendo un cane o spingendo una mucca, deviando lungo il filo spinato teso inutilmente dai soldati per recintare i pascoli contaminati. Hanno evitato le barriere biancorosse dei militari per prendere i sentieri degli animali, tra i boschi e i fiumi. Li hanno convinti le mogli, che le prime settimane arrivavano al confine della “Opasnaja Zona”, si appoggiavano alla sbarra e aspettavano che passasse un camion dei soldati per consegnare i fiori da posare davanti al cimitero. Poi le famiglie anziane si sono mosse, quasi sempre un carretto col cavallo o con i buoi le ha portate dentro la Zona. Qui tutti si sono divisi per attraversarla da soli, donne di 80 anni, uomini di 90, sparpagliati nei boschi ucraini di notte, camminando verso la loro casa e verso la radiazija, strappando ogni tanto l’erba per annusarla. Tutto è come prima, mi ha detto Tatiana Karnieva, 64 anni, l’acqua, il latte, il pascolo, il rumore degli animali di notte. Io nello sfollamento stavo male, ha aggiunto Maria Rudnik, 80 anni, non riuscivo a vivere. Dovevo accendere il lumino davanti alle icone di casa, ha spiegato Lukeria Shakalciuk, 83 anni: sono tornata per morire, dunque le radiazioni non possono farmi nulla.
Mentre i vecchi parlavano, i tecnici passavano in rassegna le 2.212 case private e gli 85 palazzoni governativi di Chernobyl, con un piano per la distruzione del quartiere Podol, il più contaminato. Dopo aver spalancato le porte e abbattuto i muri, scoperchiando i tetti malati, di notte i camion andavano a seppellire le macerie in pianura, nel nuovo cimitero delle case. Ecco perché il 19 ottobre del 1988 lo scrittore Aleksandr Levada ha chiuso a chiave la porta di casa per l’ultima volta, sorvegliato da un poliziotto, poi si è tolto il cappello e si è inginocchiato sull’erba scura di Chernobyl: «Questa adesso è una casa morta in una città cadavere. E io voglio salutarla come salutiamo i defunti nel mio Paese».
Nei paesi svuotati senza bambini, i vecchi provavano a scambiarsi la loro fiducia spettrale in una vita illusoria capace di continuare nonostante tutto, con le leggende di Chernobyl, figlie del disastro e della paura. Come la storia di Sasha Justenko, uno di quelli che dopo lo sfollamento nessuno sapeva dov’era finito, anche se la polizia diceva che forse era morto, o magari si era rifatto una vita altrove. Ma i vecchi non ci credevano. Per loro abitava nascosto dentro i palazzi deserti della città fantasma di Pripjat, a cinque chilometri dalla centrale, sfollata completamente la prima notte della tragedia con 1200 pullman, e da allora vuota e deserta. Dicevano che Sasha di notte accendeva una luce alle finestre degli ultimi piani, che cambiava appartamento ogni sera sfondando le porte sbarrate, e addirittura che era riuscito a far compiere un giro completo alla ruota gigante del luna park, immobile dal giorno della grande fuga, coi suoi sedili gialli e l’erba nera che cresceva nella ruggine radioattiva.