Corriere della Sera, 9 luglio 2019
Biografia di Jeremy Hunt, l’anti-Boris
Se Boris Johnson è un personaggio che divide, Jeremy Hunt vuole essere il candidato che unisce. L’attuale ministro degli Esteri è lo sfidante dell’ex sindaco di Londra nella corsa a diventare primo ministro della Gran Bretagna: e tanto il biondo Boris è colorito e imprevedibile, quanto Hunt si presenta come la persona seria e affidabile, quello dal quale compreresti una macchina usata senza temere la fregatura.
Un copione rispettato appieno ieri, in un incontro a Westminster con i sostenitori del partito conservatore: dove Hunt ha ovviamente rivendicato i meriti della Brexit, «che apre un capitolo nuovo nei nostri rapporti con il mondo»; per poi aggiungere però che, dopo l’uscita dalla Ue, l’obiettivo deve essere quello di riunificare un Paese diviso. E dunque occorre pensare a quel 48 per cento che tre anni fa aveva votato per restare in Europa: e il modo per riconciliarli con la Brexit è «non cambiare il nostro carattere di Paese aperto verso l’esterno, verso il mondo, fondato sulla tolleranza». Dopo l’uscita dalla Ue «occorre mostrare al mondo le nostre cose migliori, innanzitutto che restiamo una robusta democrazia».
Resta però il problema di come far accettare un accordo con Bruxelles che eviti il no deal, l’uscita senza paracadute. E Hunt, se diventasse premier, non rifarebbe l’errore di Theresa May, cioè proporre al Parlamento un accordo che non ha possibilità di essere approvato. Lui è convinto che ci sia spazio per rinegoziare e che «occorre verificare che la Ue sia pronta a parlare con noi», perché si dice certo che gli europei «ascolteranno un nuovo premier che si pone in maniera costruttiva». Il che è un’ovvia stoccata alle intemperanze verbali di Boris.
Ma sul nodo principale, il confine fra le due Irlande, Hunt rimane vago: e si limita a evocare una «soluzione tecnologica» che eviti il ritorno a una frontiera fisica, che nessuno vuole vedere per non mettere a repentaglio la pace. Ma dove sia questa bacchetta magica, nessuno lo sa.
Il ministero degli Esteri ha più volte detto che il suo asso nella manica è la moglie cinese: e ieri trova pure il tempo di fare un po’ di autoironia sulla sua gaffe più celebre, quando a Pechino si confuse e disse che la consorte era… giapponese! Per redimersi, si esibisce in qualche frase in mandarino, lingua che sta imparando perché quest’estate, rivela, gli arrivano a casa i suoceri, che non parlano una parola di inglese. Ma il carattere internazionale della sua famiglia è un’ulteriore occasione per ribadire lo spirito di tolleranza della Gran Bretagna: «A scuola – dice – nessuno neppure nota che le mie figlie sono mezze cinesi».
Per quanto affabile, Hunt sta però facendo fatica a convincere gli iscritti al partito conservatore, che sembrano preferirgli di gran lunga il contagioso entusiasmo di Boris Johnson. A scegliere il nuovo premier sarà infatti la sparuta platea dei 160 mila militanti della formazione di governo: e il paradosso è che mentre Hunt incontra i consensi dell’elettorato britannico complessivo, che vede in lui un primo ministro migliore, lo «zoccolo duro» del partito resta freddo nei suoi confronti.
Questo perché gli iscritti sono in larghissima maggioranza anziani, bianchi e benestanti: un problema che Hunt ha presente, quando dice che «dobbiamo sintonizzarci con i valori delle generazioni più giovani, a partire dall’ambientalismo». Ma è un limite che probabilmente gli sarà fatale: perché, come scriveva ieri il Financial Times, presentarsi soltanto come il «non-Boris» non è abbastanza per vincere la sfida.