8 luglio 2019
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Biografia di Tom Hanks
Tom Hanks (Thomas Jeffrey H.), nato a Concord (California) il 9 luglio 1956 (63 anni). Attore. Regista. Produttore cinematografico e televisivo. Due premi Oscar al miglior attore (Philadelphia, 1994; Forrest Gump, 1995) e un Orso d’argento per il miglior attore (Philadelphia, 1994). «Io sono quello che sono. Non posso incutere terrore, accidenti!» • Lontana parentela con Abramo Lincoln. «Tom Hanks è discendente collaterale del 16esimo presidente degli Stati Uniti da parte del padre, Amos Mefford Hanks (la madre di Lincoln si chiamava Nancy Hanks; da una sorella di quest’ultima discende invece George Clooney). L’attore ha invece sangue portoghese da parte di madre» (Massimiliano Jattoni Dall’Asén) • «La madre, Janet, lavorava all’ospedale locale e il padre, Amos, era uno chef. […] Terzo di quattro figli, ha solo cinque anni quando i genitori si separano e il padre porta via lui e i suoi due fratelli maggiori (il più piccolo, Jim, rimase con la madre) per trasferirsi a Reno e cominciare una nuova vita. Negli anni seguenti Amos, che è scomparso nel 1992, trasloca spesso con la famiglia fino a quando si stabilisce definitivamente a Oakland, dove si risposa e ha altri figli. […] “Non appena cominciavi a stancarti della casa, papà prendeva un altro lavoro e, improvvisamente, ce ne andavamo altrove. Amavo essere quello nuovo in classe: due giorni di timidezza, poi, vai!, sei nel gruppo e ti eleggono nuovo cerimoniere”» (Martyn Palmer). «Come tanti attori americani, ha cominciato a recitare a scuola, nelle compagnie studentesche al liceo» (Lietta Tornabuoni). «Mio padre aveva un carattere e una personalità completamente diversi da me. Era timidissimo e gli riusciva difficile comunicare. Io sono stato sempre molto disinvolto. Quando cominciai a recitare negli spettacoli della scuola mi resi conto per la prima volta che mio padre, tra il pubblico, provava ammirazione per me, perché avevo una qualità che a lui mancava. Ma ormai era troppo tardi per reimpostare il nostro rapporto. Non abbiamo mai avuto un dialogo aperto» (a Jess Cagle). «Nel 1974 mi diplomai alla Skyline, una scuola superiore di Oakland, in California. Non ero uno studente brillante, i miei voti erano molto scadenti. Potendo inoltrare la domanda a tre università, scelsi il Mit e la Villanova, consapevole che atenei così prestigiosi non avrebbero mai accettato uno studente come me, ma sperando che mi spedissero i loro adesivi per auto come premio per averci provato. In ogni caso non potevo permettermi le rette del college. L’ultima domanda, la feci al Chabot, un community college nella vicina cittadina di Hayward; e, visto che i community college accettavano tutti e non prevedevano il pagamento di rette, il Chabot diventò la mia alma mater. Per migliaia di studenti pendolari, il Chabot era come la Columbia, come Annapolis, addirittura come la Sorbona. […] Tra i miei compagni di studi c’erano veterani di ritorno dal Vietnam, donne di ogni stato civile con figli o senza che avevano ripreso a studiare, uomini di mezza età che volevano migliorare le loro prospettive lavorative e guadagnare di più. Al Chabot avevamo la possibilità di guadagnarci i nostri requisiti di istruzione generale, crediti che potevamo trasferire a un’università: quei due anni rappresentavano una spinta iniziale preziosissima. Dopo, ebbi la possibilità di iscrivermi alla sede di Sacramento dell’Università statale della California (costava 95 dollari a semestre, al limite delle mie possibilità economiche) e studiare solo la mia materia principale, arte teatrale. (Dopo un anno a Sacramento me ne andai, per iscrivermi a una cosetta chiamata Scuola delle Bastonate, nota anche come Vita)». «Nel 1978 va a New York, nella speranza di realizzare il suo sogno e di recitare a Broadway. Viene invece scelto per una commedia televisiva che avrà vita breve, Bosom Buddies, e fa piccole apparizioni in altri telefilm come Happy Days, dove incontra Ron Howard, il Richie Cunningham della serie tv che, una volta diventato regista, gli dà la sua prima occasione nel cinema: protagonista, insieme a Daryl Hannah, di Splash – Una sirena a Manhattan. È un successo. Quattro anni dopo Hanks concede il bis con Big, che gli vale la prima nomination all’Oscar. Negli anni Novanta non sbaglia praticamente niente» (Palmer). «Con il sofferto ruolo di un avvocato malato di Aids in Philadelphia (1993) di J. Demme […] vince l’Oscar e inaugura una parata di magistrali interpretazioni che segnano gli anni ’90: vince un secondo Oscar con il premuroso idiota di Forrest Gump (1994) di R. Zemeckis, un giovane che cresce secondo i dettami del “right citizen” vecchia maniera e che imprevedibilmente raggiunge sempre miracolosamente il successo, senza però accorgersi che gli Stati Uniti stanno cambiando pelle; è poi l’orgoglioso astronauta di Apollo 13 (1995) di R. Howard; il capitano coraggioso di Salvate il soldato Ryan (1998) di S. Spielberg e, infine, il naufrago di Cast Away (2000) di R. Zemeckis, che lotta contro gli elementi naturali, il dolore fisico, la solitudine e il pericolo dell’autodistruzione psicologica per scoprire, una volta salvato e ritornato al mondo civile, di aver perso la donna che amava e di dover ricominciare da capo. Passato alla regia, dirige l’innocuo Music Graffiti (1996). Nel 2002 offre una nuova performance di altissimo livello interpretando il gangster braccato dalla mafia nella Chicago anni ’30 in Era mio padre di S. Mendes, mentre due anni dopo, nel 2004, conferma la sua predilezione per personaggi candidi e ingenui, ma portatori di verità, interpretando l’esule dell’Est costretto a vivere recluso dentro i confini dell’aeroporto dalle autorità americane in The Terminal di S. Spielberg. Benché il suo nome figuri tra quelli dei promotori di un sodalizio per la tutela degli attori in carne e ossa contro la minaccia degli attori digitali, sempre nel 2004 si presta generosamente a un esperimento propostogli da R. Zemeckis per Polar Express, dove riesce a dar vita contemporaneamente a ben cinque personaggi diversi grazie alla nuova tecnica di ridisegno digitale del corpo dell’attore denominata performance capture. Dimostra poi doti da trasformista in Ladykillers (2004) di E. e J. Coen, dove è il colto ladro dalla dialettica forbita. Dopo il ruolo da protagonista nel controverso kolossal Il codice Da Vinci (2006) di R. Howard, recita in La guerra di Charlie Wilson (2007) di M. Nichols, nella parte del vizioso senatore del Texas che negli anni ’80 si prodiga per gli aiuti ai ribelli afghani contro l’invasione sovietica» (Gianni Canova). «Nel 2011 torna dietro e davanti alla macchina da presa, insieme a Julia Roberts, nella commedia L’amore all’improvviso – Larry Crowne, e sempre nello stesso anno è il protagonista, insieme a Sandra Bullock, di Molto forte, incredibilmente vicino, tratto dall’omonimo romanzo di Jonathan Safran Foer. Il 2015 si chiude con un film potente: Il ponte delle spie» (Jattoni Dall’Asén). In quest’ultima pellicola, tra le più acclamate di Steven Spielberg, l’attore «impersona James B. Donovan, l’avvocato che nel 1957 – in piena Guerra fredda – fu incaricato di difendere d’ufficio la spia anglo-russa Rudolf Abel (nel film è Mark Rylance). La sua ostinazione nel rispettare la costituzione americana e i diritti del nemico lo rese un reietto, ma grazie a una straordinaria retorica, e una grande abilità di negoziatore, uscì da eroe dalla spinosa vicenda» (Alessandra Venezia). Negli ultimi anni, Hanks è stato diretto per la prima volta da Clint Eastwood in Sully, nel ruolo di Chesley «Sully» Sullenberger, il pilota che dopo aver salvato oltre centocinquanta persone con un eroico ammaraggio finì al centro di un’inchiesta sul suo operato, ed è poi tornato a collaborare con Ron Howard, per Inferno, l’ultimo capitolo della trilogia ispirata alla saga di Dan Brown (dopo Il codice Da Vinci e Angeli e demoni), e con Steven Spielberg, per The Post, nei panni di Ben Bradlee, il caporedattore del Washington Post ai tempi della pubblicazione dei Pentagon Papers. Tuttora assai richiesto, prossimamente Hanks dovrebbe prender parte a un film biografico su Elvis Presley di Baz Luhrmann, interpretando il Colonnello Tom Parker, noto manager del cantante • Nel 2017 ha pubblicato il suo primo libro, la raccolta di racconti Tipi non comuni (Bompiani), titolo (originariamente Uncommon Type. Some Stories) «che ha vari doppi sensi. Tipo non comune è sicuramente l’autore. Tipi non comuni sono i personaggi che popolano le 17 storie. E non comuni sono i caratteri tipografici della macchine da scrivere di cui Tom Hanks è un grande collezionista. Ne ha più di cento, e ha creato anche una app, Hanx Writer, dove un appassionato del ticchettio delle vecchie Olivetti si può sbizzarrire pensando di inserire un foglio bianco nel rullo e andare a capo con la manopola» (Caterina Soffici). «“Ci sono voluti tre anni di lavoro per questo libro. In ogni momento libero del set, durante i tour promozionali, tra un film e l’altro. Seduto ore e ore a cercare cosa mancava, cosa non funzionava. Sempre solo, senza lo scambio e la coralità che caratterizzano il lavoro nel cinema”. La critica, in genere, non è stata molto benevola, forse più severa del necessario: “Hanks, but not thanks” ha titolato perfidamente l’Observer. Ma […] pesa il pregiudizio delle porte che si spalancano in automatico: niente gavetta e anticamere o buttafuori a sbarrargli la strada. Effettivamente è andata così, ma senza protervia. Aveva scritto un racconto piuttosto scemo e divertente su quattro amici che decidono di andare sulla Luna e l’ha sottoposto a Steve Martin, altro attore con un piede sulle scene e l’altro sotto la scrivania. “Per la mia generazione Steve era come i Beatles; al college adoravamo i suoi pezzi comici. E lo ammiro anche come autore di romanzi e cose teatrali. Insomma: gli mando il racconto, lui dice che funziona e lo passa al suo agente. Va a finire che viene pubblicato sul New Yorker, e che di lì a poco mi chiama la Penguin Random House per chiedermi se ne ho degli altri”. Non ne aveva, ma si è dato da fare. Al Grande Romanzo non ha mai pensato e, visto che intende continuare a scrivere, annuncia che si manterrà nel vasto e fecondo pascolo delle short stories, traendo sempre ispirazione da uno scrittore molto diverso da lui: il defunto rabbino Chaim Potok, che “è stato come un’esplosione”, la prima volta che lo ha letto. È esplosivo anche il bisogno di scrivere. Dice che è un fuoco nella pancia, o magari nelle vene. Meglio ancora: dentro la testa, visto che è lì che gli girava una fottuta quantità di storie: “E non sapevo a chi raccontarle. Sul set non è previsto: devo interpretare una vicenda in modo emozionante e attendibile, ma non mi viene richiesto di spiegare quello che sento, che ho dentro. È un limite del cinema, nonostante tutte le figure professionali e gli strumenti che abbiamo. Con lo sceneggiatore, il regista, lo scenografo si discute sempre su come esprimere meglio quel che c’è in una storia, oltre la pagina del copione. E arriviamo sempre alla conclusione che manca uno strumento fondamentale per approfondire: il tempo. Come fai a raccontare una storia complessa in due ore?”. […] “Per me, il vero debutto nella scrittura è stato un articolo per il New York Times sul mio truccatore che andava in pensione. Lo feci leggere a Nora Ephron, che temevo e ammiravo moltissimo. Disse che il pezzo c’era, il materiale era buono, ma gli mancava la voce. Disse anche che avevo la mente da scrittore, ma non la disciplina. Mi consigliò di pensarci su. È stata Nora, cui ho dedicato il libro oltre che a mia moglie e ai miei figli, a farmi ragionare come un autore nei due film in cui mi ha diretto: Insonnia d’amore e C’è posta per te. Alle prove suggerivo o aggiungevo qualcosa e lei mi spingeva a farlo di più, diceva che era roba mia, anche se non l’avevo scritta con le mie mani”. Quindi: le voci dei personaggi e della biografia di T.H. risuonano nel libro. “Ma, per i fatti che mi riguardano personalmente, ho inserito almeno il cambiamento di genere. Nella storia dell’aspirante attrice di provincia spersa a New York, che incontra per caso un direttore di produzione conosciuto in Arizona e ottiene da lui un aiuto insperato, c’è di sicuro qualcosa dei miei faticosi esordi. E anche dietro alla ragazza che compra la macchina da scrivere ci sono io”» (Paola Zanuttini) • Due figli, Colin (1977), attore, ed Elizabeth (1982), dalla prima moglie, l’attrice Samantha Lewes (1952-2002); altri due figli, Chester Marlon «Chet» (1990), rapper con problemi di droga, e Truman Theodore (1995), dalla seconda e attuale consorte, l’attrice, cantante e produttrice Rita Wilson (classe 1956) • Sostenitore e finanziatore del Partito democratico. «In prima fila nelle lotte sociali, […] è stato uno dei primi sostenitori del matrimonio gay e si batte per ogni possibile causa ecologica» (Venezia). «L’anarchico jeffersoniano, il pacifista anni ’60, il giovane democratico alla Bobby Kennedy che ho sempre pensato di essere mi fa dire: "Non lamentarti del buio, accendi una candela"» • Diabetico. «Sono stato un idiota. Se ho il diabete, sono solo io il responsabile. È colpa della mia dieta poco sana» • «Certo non è glamour. Non ha il fascino dell’intellettuale né del rivoluzionario né dell’asociale. Proprio non viene in mente di poterne essere sedotti: ma, unita alla bravura, la sua semplicità è una prova di qualità e anche di eleganza» (Tornabuoni). «È considerato l’erede di Jimmy Stewart, la quintessenza dell’Everyman americano, entrambi universalmente amati» (Anselma Dell’Olio). «La grande qualità di Tom Hanks è che non resta mai intrappolato nel suo ruolo. Anche quando interpreta una parte intensa, di quelle che richiedono immedesimazione e grande concentrazione, una volta spenta la cinepresa Tom torna a essere Tom, […] con quell’intelligente leggerezza che accompagna ogni sua interpretazione sul grande schermo e che il suo volto comunica fin dai primi sguardi. […] Dopo averlo visto per la prima volta nella sitcom Bosom Buddies (Amici per la pelle) in un doppio ruolo, e successivamente in Splash – Una sirena a Manhattan e in Big, il pubblico Usa capì subito di trovarsi davanti a un attore di talento, caratterizzato da una tranquillante delicatezza. Ma nella stesso tempo visse la sua recitazione spontanea e diretta come troppo facile, poco lavorata e sofferta. E a torto. Perché “Tom ha il talento di calarsi in quello che lo spettatore pensa farebbe una persona vera”, spiega Penny Marshall, che lo ha diretto in Big e Ragazze vincenti. “Non è solo un attore che interpreta un ruolo. In lui c’è qualcosa di più: un modo naturale di “vivere” il personaggio, che, se da un lato rende vibrante ogni suo film, dall’altro può offuscare il lungo lavoro che sta dietro ogni espressione, ogni parola, ogni più piccolo movimento”. Un rischio, questo, che è scomparso via via che i ruoli sono diventati più complessi e intensi: quei ruoli che, un po’ a sorpresa, hanno fatto presa su un pubblico abituato all’intrattenimento veloce e superficiale. Le sue chiare, dirette interpretazioni di uomini emarginati – il sofferente vedovo di Insonnia d’amore, l’avvocato gay malato di Aids in Philadelphia, l’eroe dalla parlata lenta di Forrest Gump – hanno catapultato i suoi film nell’Olimpo delle pellicole più forti e commoventi di Hollywood, facendo di lui un attore con la “a” maiuscola» (Josh Young). «Lavoro e lavoro, per levigare lo stile, per mettere a punto quella galleria di ritratti di ingenuo, di candido, di onesto fino al midollo che […] dà lustro alla sua perfetta carriera di primo della classe. Di unico attore, dopo sua santità Spencer Tracy, a essere riuscito a vincere due Oscar consecutivi [per l’esattezza, due premi Oscar al miglior attore in due anni consecutivi – ndr]. E ad aver ricevuto dall’American Film Institute, a neanche cinquant’anni, un Life Achievement Award, roba da monumenti alla memoria. […] Ha la faccia di un buon americano che da bambino sognava di fare l’astronauta come tutti i bambini d’America della sua generazione. È sensibile ai valori della famiglia perché ha avuto in sorte una famiglia disastrata come ogni baby boomer che si rispetti (“Ho avuto tre mamme, cinque scuole, dieci case e undici fratelli acquisiti”, è una delle sue sintesi biografiche preferite). Incarna l’uomo medio che sa fare il suo dovere e rispetta le regole con l’affetto che bisogna portare alle regole e al proprio dovere, anche se è un dovere doloroso» (Maurizio Crippa) • Attore-feticcio di Steven Spielberg, che l’ha diretto in ben cinque film (Salvate il soldato Ryan, Prova a prendermi, The Terminal, Il ponte delle spie, The Post). «Quelle con Spielberg sono state le più autentiche esperienze di cinema della mia vita. Lui ha fatto film di enorme successo, ma è grande anche quando le sue non sono pellicole di cassetta. Porta sul set un’energia incredibile, e con un tocco trasforma una scena anche senza distaccarsi dal copione». «Tom è il vero genio del cinema, non io. È un regalo che mi ha mandato il dio del cinema, accompagnato da un biglietto di ringraziamento per quel paio di miei film che gli sono piaciuti» (Steven Spielberg) • «Tom Hanks è […] uno che crede innanzitutto nel prodotto. È un professionista meticoloso, che non sceglie un copione a caso e quando ha scelto non si tira indietro dalla promozione. Uno, dicono, che quando arriva all’appuntamento per un’intervista chiama il giornalista per nome e sa perfettamente con quale giornale sta parlando» (Crippa). «Seleziona con molta attenzione i suoi impegni cinematografici, e per farlo si serve di un test, detto “delle quattro E”, da lui stesso messo a punto. Per essere scelto un film deve divertire (entertain), educare (educate), informare (enlighten), e incantare (enthrall). Una linea di pensiero che Hanks ha cominciato a seguire da quando è diventato amico di Sally Field, sua madre in Forrest Gump» (Young) • «“Recitare è subito stato la mia vita, […] ma gli inizi sono stati duri. Ringrazio ancora Ron Howard, che, dopo avermi conosciuto sul set di Happy Days, mi volle nell’84 in Splash – Una sirena a Manhattan. Ma anche dopo sono arrivate le crisi. Sono rimasto più di un anno senza lavoro, che è come essere disoccupato per 6 anni in altri settori”. Nasce in quei tempi la sua ossessione per l’ingaggio continuo, che oggi gli provoca il rimorso di aver trascurato i due figli nati dal primo matrimonio. […] Nasce all’epoca anche l’ossessione per l’interpretazione perfetta: “Per ora la mia migliore prova è stata in Cast Away: non avrei mai creduto di riuscire a tenere un film da solo”, racconta Hanks, che per il ruolo di naufrago dimagrì 26 chili per poi vedersi soffiare l’Oscar numero tre dal gladiatore Russell Crowe» (Arianna Finos) • «Il pilota eroe involontario che salva i passeggeri del suo aereo atterrando sul fiume Hudson, l’avvocato del Ponte delle spie in missione nella Berlino Est comunista, “Captain Phillips” alle prese coi pirati. Lei è considerato il volto cinematografico dell’americano medio. Talvolta costretto dalle circostanze della vita a fare cose straordinarie. Si sente bene in questi panni? “Sono e mi sento profondamente americano. Nei miei film studio il comportamento della gente del mio Paese, le sue motivazioni, esploro la psiche degli americani. Insomma, non so se quella che mi propone sia la definizione più giusta, ma, in quei panni, ci sto bene”. […] La sua produzione è sterminata: quali sono le pellicole che ama di più? “Cast Away e Cloud Atlas: due esperienze estreme, in modi diversi, nella mia attività cinematografica. Nel primo interpretai l’agente FedEx salvatosi da un incidente aereo, che rimase per anni naufrago su un’isola deserta. Dovetti perdere venti chili e girammo un film che sconvolgeva tutte le regole del cinema: niente musiche, niente dialoghi, tutto girato in tempi reali e negli spazi reali. Un lavoro di enorme difficoltà: ci vollero più di tre anni per portarlo a termine. La mia esperienza cinematografica più estrema, essenziale. Cloud Atlas è l’esatto opposto: una storia estremamente complessa, con varie trame e varie ère che si incrociano. Scene in costume, eserciti di comparse: se ami la magia del cinema, questa è l’immersione più affascinante. Ogni mattina sveglia alle 4.45 e all’alba sul set con centinaia di altre persone, senza sapere cosa uscirà dal cilindro dei Wachowski, i registi. Girando alcune scene in costume mi sembrava di essere piombato in 8½ di Fellini”. Lei ha interpretato i personaggi più diversi. Ma ce n’è uno che voleva fortemente e che non è riuscito a portare sullo schermo? “In linea di massima, le cose che non ho fatto sono quelle che non sapevo fare. […] Ma un rammarico ce l’ho. Il comunismo è una cosa che mi ha sempre attirato molto. Sono cresciuto in un mondo diviso in due blocchi: noi e ‘loro’, i sovietici dall’altra parte della ‘cortina di ferro’. È un mondo che compare in vari miei film, come Il ponte delle spie, ma avrei voluto raccontarlo con un’incursione dall’altra parte della barricata. Interpretando Dean Reed, un cantante rock statunitense che ebbe scarso successo in patria ma poi, dopo aver abbracciato il comunismo, divenne popolarissimo nell’Unione Sovietica e andò a vivere a Berlino Est. Purtroppo non è stato possibile. Ma non può riuscirti sempre tutto”. […] Hanks attore, produttore, scrittore, e, in un paio di casi, anche regista. La vedremo sempre più spesso dall’altra parte della macchina da presa? “Il mio mestiere è quello dell’attore. Per dirla tutta, è anche la cosa più facile: non hai bisogno di spiegare agli altri quello che stai facendo. Scrivere è un lavoro duro, ma che dà soddisfazione. Produrre serve anche a far emergere nuovi talenti e a portare sulla scena storie che valgono. La regia è un impegno lungo, almeno 18 mesi, e totale: devi sempre spiegare tutto a tutti per tutto il giorno. Una fatica enorme”» (Massimo Gaggi) • «Mi considero l’attore più fortunato al mondo. L’unico metro per misurare il successo è la longevità».