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 2019  luglio 08 Lunedì calendario

Intervista al presidente dell’Istat Giancarlo Blangiardo

Lavoro e immigrazione sono le due grandi preoccupazioni degli italiani, i problemi che il governo è chiamato a risolvere. Su questi temi Libero ha interpellato il presidente dell’Istat, Giancarlo Blangiardo, per sapere qual è la reale situazione del Paese e il sentimento dei cittadini.Presidente, siamo passati da un Paese che cresce senza creare posti di lavoro a un Paese che cresce poco ma ha più posti di lavoro: ci svela il mistero?
«L’economia italiana è in una fase ciclica caratterizzata da incertezza a livello globale e dinamiche della domanda instabili e frammentate. La crescita economica del Paese, debole a livello macroeconomico, presenta però evoluzioni settoriali in molti casi positive, che sembrano coinvolgere comparti a elevata intensità di lavoro. Inoltre, è possibile che alcuni provvedimenti di policy abbiano generato, così come accaduto nelle prime fasi della ripresa economica, effetti positivi sull’assorbimento occupazionale da parte del sistema produttivo, contribuendo a una divaricazione nel breve periodo tra andamento statistico e dinamiche del mercato del lavoro».
Come mai gli anziani lavorano più dei giovani, questione d’esperienza, di competenza o altro?
«Diversi fattori hanno contribuito alla diminuzione del peso della componente dei giovani tra gli occupati. Innanzitutto c’è il calo della popolazione in quella fascia d’età, dove si sconta un crollo delle nascite che va avanti da qualche decennio. Poi ci sono l’allungamento dei percorsi di studio e le difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro dei nuovi lavoratori (soprattutto in settori come la Pubblica Amministrazione, col blocco del turn-over), in presenza di coorti più numerose di lavoratori in età matura che riflettono i flussi di ingresso del passato. Pensi che, se nel 2008 il 30,2% degli occupati aveva un’età compresa tra 15 e 34 anni, dieci anni dopo questa quota è scesa al 22. Tale incidenza raggiunge un minimo dell’8,1% nella pubblica amministrazione, dove si è pressoché dimezzata».
Non è solo una questione di numeri ma anche di qualità del lavoro: i giovani trovano solo occupazioni modeste e perciò precarie...
«Il decennio ha visto aumentare la distanza fra giovani e adulti anche rispetto alla stabilità del lavoro: la quota di dipendenti a tempo indeterminato tra i giovani è scesa dal 61,4% del 2008 al 52,7% del 2018, mentre quella degli over 35 è aumentata di 1,1 punti attestandosi al 67,1%. Inoltre circa un terzo dei 15-34enni occupati nel 2018 ha un lavoro a tempo determinato».
Non può dipendere anche dal fatto che gli anziani sono più bravi e più qualificati dei giovani nel lavoro?
«Anche a ragione della minore esperienza lavorativa, tra i giovani sono più rappresentate le professioni addette al commercio e servizi (il 26,9% dei giovani e il 17 degli adulti) e meno nelle professioni qualificate (rispettivamente 29 e 37%). Tra le professioni qualificate in cui i giovani sono più presenti (costituendo più di un terzo degli occupati in quella professione) vi sono tecnici del web e del marketing, operatori video, ingegneri industriali, gestionali, elettronici e meccanici, restauratori e ricercatori in scienze della salute. Al contrario gli under 35 costituiscono meno del 10% degli occupati tra i professori di scuola primaria e secondaria superiore e tra i medici specialisti».
In Italia ci sono fuga di cervelli, giovani senza lavoro e aziende che non trovano lavoratori: ci spiega com’è possibile?
«Le ragioni della mancata corrispondenza tra domanda e offerta di lavoro sembrano riconducibili a problemi strutturali del sistema produttivo nell’impiegare al meglio il capitale umano disponibile, a causa soprattutto di una eccessiva frammentazione delle nostre imprese. A questo si aggiunge un sistema formativo tradizionalmente poco attento alle caratteristiche effettive della domanda di lavoro. Questi limiti sono testimoniati da un gran numero di indicatori, di diversa natura, che convergono nel formare un quadro di sottoutilizzo quantitativo e qualitativo del potenziale lavorativo, di cui il fenomeno della sovra istruzione ne rappresenta una sintesi: nel 2018 i laureati sovraistruiti sono circa 1,8 milioni, in aumento di 2 punti percentuali rispetto al 2013».
Per questo i giovani scappano all’estero?
«In effetti le caratteristiche del lavoro svolto da chi ha lasciato l’Italia risultano maggiormente in linea con gli studi conclusi rispetto a quanto si evince per i colleghi rimasti in Italia».
Perché quota 100 e reddito di cittadinanza hanno avuto meno richieste del previsto?
«Si può rispondere facendo soltanto supposizioni ancora non corroborate da valutazioni quantitative. Le argomentazioni potrebbero essere molteplici: i provvedimenti sono entrati in vigore ancora da poco tempo e probabilmente, conti alla mano, il rapporto costi/benefici non è sempre vantaggioso; almeno si può pensare che non per tutte le professioni e per tutte le situazioni lavorative sia ritenuto auspicabile anticipare l’uscita dal lavoro».
La denatalità come sta incidendo sull’economia e sul lavoro?
«Gli scenari previsivi indicano come altamente probabile un ulteriore calo della popolazione, che potrà scendere dagli attuali 60,4 milioni di residenti a 60,3 milioni nel 2030, per poi subire, negli anni successivi, una riduzione più accentuata: 58,2 milioni nel 2050, con una perdita complessiva di 2,2 milioni rispetto a oggi. La quota di ultrasessantacinquenni sul totale della popolazione potrebbe accrescersi nel 2050 tra i 9 e i 14 punti percentuali rispetto al valore del 2018 (22,6%). Ma conseguenze altrettanto rilevanti riguarderanno la popolazione in età attiva, che subirà un’intensa riduzione della forza lavoro potenziale. Nel 2050, la quota dei 15-64enni potrà scendere al 54,2% del totale, circa dieci punti percentuali in meno rispetto a oggi. Si tratta di oltre 6 milioni di persone in meno nella popolazione in età da lavoro».
Si dice che in Italia la ricchezza è degli anziani. È davvero così: sono una categoria di privilegiati o a rischio?
«Pur con tutti i limiti di una società in cui il benessere riflette variabili che vanno ben oltre la semplice età anagrafica, i dati segnalano che i giovani appaiono più esposti alla povertà. L’incidenza di povertà assoluta è in effetti più alta e ha registrato il maggiore incremento degli ultimi dieci anni per le persone fino a 17 anni e per quelle tra 18 e 34 anni (+8,9 e +6,4 punti percentuali rispetto al 2008 rispettivamente); mentre per le persone anziane è rimasta sostanzialmente stabile. Nel 2018 il divario nell’incidenza della povertà assoluta tra giovani e anziani è pari a circa 6 punti percentuali a sfavore dei giovani con 18-34 anni e circa 8 rispetto ai minorenni».
Capitolo immigrazione: è davvero calato il flusso?
«Si notano i primi effetti: al 31 dicembre 2018 sono 5.255.503 i cittadini stranieri iscritti in anagrafe. Rispetto al 2017 sono aumentati di 111 mila (+2,2%) arrivando a costituire l’8,7% del totale della popolazione residente. Nel 2018 il saldo migratorio è positivo di oltre 175 mila unità, assai meno di quanto accadeva durante il primo decennio del nuovo secolo».
E per il futuro cosa dobbiamo aspettarci?
«Buona parte delle iscrizioni in anagrafe dall’estero è conseguente al rilascio di nuovi permessi di soggiorno per i cittadini non comunitari nell’anno in corso, ma soprattutto, nel precedente. Nel corso del 2017 sono stati rilasciati quasi 263 mila nuovi permessi di soggiorno, in lieve aumento rispetto al 2016, dopo una tendenza alla diminuzione già messa in luce negli anni precedenti: basti pensare che nel 2010 erano quasi 600 mila. Adesso però c’è stato il giro di vite. A partire dal 2018 ci si attende una forte riduzione dei nuovi permessi di soggiorno rilasciati, anche a seguito della contrazione degli arrivi attraverso gli sbarchi. Sulla base dei dati degli arrivi per sbarchi pubblicati dal Ministero dell’Interno, nel 2017 sono stati registrati 119 mila migranti sbarcati, nel 2018 appena 23 mila. Nei primi 4 mesi del 2019 solo 873 ingressi per sbarchi (il 91 per cento in meno rispetto al primo quadrimestre del 2018). Anche per quanto riguarda le richieste di asilo tra il 2017 e il 2018 si è registrata un’evidente flessione: sono passate da oltre 130 mila a meno di 54 mila».
Qual è la qualità dell’immigrazione in Italia, quanto è qualificata rispetto ad altri Paesi come gli Usa, la Germania, l’Inghilterra, ma anche i Sud-Est asiatico?
«La collocazione degli stranieri all’interno del mercato del lavoro italiano appare fortemente caratterizzata dal punto di vista settoriale e professionale, con una concentrazione in segmenti a bassa qualificazione, spesso meno tutelati e con basse retribuzioni. Peraltro, il processo di inserimento lavorativo spesso avviene tramite le reti etniche di appartenenza, con un conseguente effetto di persistenza delle segmentazioni osservate».
E quindi, presidente?
«Nel 2018 gli occupati stranieri residenti in Italia sono 2 milioni 455 mila (1 milione 369 mila uomini e 1 milione 86 mila donne), pari al 10,6% del totale occupati, in aumento di 0,1 punti percentuali in un anno e di 3,3 punti in confronto al 2008. Ma nel complesso, nel 2018, circa la metà dell’occupazione straniera è assorbita da solo 12 professioni che ordinate per numerosità sono: collaboratori domestici, addetti all’assistenza personale, addetti ai servizi di pulizia di uffici ed esercizi commerciali, muratori, braccianti agricoli, aiuto cuochi, camerieri, magazzinieri, commessi, facchini, camionisti, venditori ambulanti. Dal punto di vista sociodemografico al Centro-nord continuano i processi di stabilizzazione dell’immigrazione, con la diminuzione delle collettività presenti da più tempo (marocchini e albanesi) per effetto delle acquisizioni di cittadinanza».
Gli immigrati di seconda e terza generazione fanno meno figli rispetto ai loro padri e tendono ad attestarsi su un tasso di natalità simile a quello degli italiani?
«Non c’è ancora una storia consolidata rispetto alle scelte di fecondità da parte di chi è arrivato o e nato straniero nel nostro Paese. Però, se vediamo i dati di natalità per l’insieme della popolazione straniera, mentre prendiamo atto che oggigiorno più di un nato su cinque ha almeno un genitore straniero, va anche rilevato che dal 2012 al 2018 sono diminuiti sia i nati stranieri – da 80 mila a 65 mila – sia i nati con almeno un genitore straniero, scesi sotto le 100 mila unità. Siamo dunque di fronte a un contributo che resta importante, per sostenere la bassa natalità del Paese, ma non possiamo ritenere che sia risolutivo per invertirne le tendenze».