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 2019  luglio 08 Lunedì calendario

Intervista a Angelo Guglielmi

Angelo Guglielmi, scrittore e critico tra i fondatori del Gruppo ’63, direttore di Rai3 dal 1987 al 1994, continua a detestare l’autobiografia, seppure ne abbia appena scritta e pubblicata una con la casa editrice La nave di Teseo. Varcata la soglia dei novant’anni, nel libro Sfido a riconoscermi – Racconti sparsi e tre saggi su Gadda (La nave di Teseo, 174 pagine, 19 euro) Guglielmi intreccia frammenti biografici, i mestieri vissuti e alcune riflessioni sulla letteratura italiana da metà del secolo scorso a oggi. Tra le date importanti delle tante vite professionali di Guglielmi, ce n’è una fondamentale. Correva l’anno 1955, quando la madre ascoltando in radio Il motivo in maschera, condotto da Mike Bongiorno, seppe del concorso per autori e programmisti bandito dalla Rai, all’alba del servizio televisivo pubblico, di cui poi Guglielmi è stato un protagonista.
Guglielmi, arrivò pronto alla riunione fondativa del Gruppo 63 a Palermo?
«Incontrai Balestrini un mese prima: mi comunicò che il 10 ottobre ci saremmo riuniti all’Hotel Zagarella e che avrei tenuto la relazione di apertura. Rimasi sorpreso e scombussolato, convinto di non essere per nulla pronto per l’impegno richiestomi. Poi parlai di fronte a Eco, Sanguineti, Giuliani, Pagliarani, Manganelli, Barilli e tanti altri».
Qual era per Balestrini il rapporto tra inventare e fare?
«Di lui si dice che oltre a essere uno straordinario narratore e un difficile poeta (ma esiste un poeta non difficile?) era un grande organizzatore. È vero, ma per dare il giusto valore a questa sua caratteristica, occorre ricordare un articolo in cui scrisse: La creatività non è solo scrivere poesia, ma garantirle la diffusione pubblica attraverso la predisposizione di specifici eventi e occasioni».
E per lei che che cosa significava?
«Il lavoro degli scrittori e dei critici, che operavano nello sperimentalismo letterario degli anni ’50 e ’60, grazie a Balestrini si trasformò in qualcosa di concreto e vitale. Forse non si parlerebbe del Gruppo ’63 senza l’impegno-intervento del poeta Balestrini, ultima forma della sua creatività».
Lei cominciò ventenne il mestiere di critico letterario. Qual è lo stato dell’arte?
«La critica letteraria non è, come si dice, morta. È defunta la capacità di praticarla con quella attenzione e intuizione che aiutava gli scrittori, anche importanti, ad arricchire le proprie conoscenze, allargare e qualche volta correggere i modi di scrivere. Nel Duemila molte cose sono scomparse anche la molteplicità di indirizzo e stile degli autori con danno per il lettore».
Qual è stata l’eccezionalità di Gadda nel panorama della letteratura italiana contemporanea?
«Lo scrivere di sé parlando d’altro. Quel che si è va restituito per il lettore non in aneddoti, ma in una proposta di scrittura. Per questo Gadda è stato un grande scrittore europeo del genere di Céline e Joyce. Un eventuale invito agli scrittori di oggi è di leggere di più e, se non lo hanno ancora fatto, quei classici che nell’Europa moderna esistevano ed erano letti fin dagli anni Trenta».
Che cosa rappresentò la televisione rispetto all’appartenenza al Gruppo ’63?
«Di quella comunità, portai in televisione il piacere e la necessità del nuovo. Una volta diventato direttore di Rai3, alla televisione educativa, che aveva esaurito la propria stagione e la ragione di essere, opposi la novità. Non intendevo la televisione come un nastro trasportatore di prodotti nati in altri linguaggi: teatro, romanzi sceneggiati, documentari di arti visive e cinema. La televisione stessa doveva essere un linguaggio in grado di produrre in assoluta autonomia i prodotti di cui ha bisogno. E facemmo solo dirette dalla realtà del Paese declinate in varie versioni: informativa, satirica o comica come Samarcanda di Santoro, la Cartolina di Barbato, Il portalettere di Chiambretti, Mi manda Lubrano, Chi l’ha visto?, Un giorno in Pretura e La tv delle ragazze».
Che cosa vuol dire portare la cultura in televisione?
«Chi lavora in quell’ambito dovrebbe sempre ricordare che la cultura è conoscenza, dunque non un modo di sapere ma un modo di essere».
Concorda con la definizione della Rai come principale industria culturale del Paese?
«Non lo è, ma sarebbe o potrebbe esserlo».
Il binomio Rai-politica è inscindibile?
«L’occupazione della politica è il grande male della Rai, dal quale abbiamo capito che mai si libererà».
Lei sostiene che il Novecento ancora vivacchia. 
«Il Duemila finora si trascina stancamente. Non era mai successo che, nel passaggio da un secolo all’altro, i primi venti anni non producessero un forte scrittore, un pittore significativo e un musicista da ricordare».
Qual è la traccia più profonda lasciata dagli anni Ottanta?
«L’ultimo scorcio del secolo scorso vanta accadimenti ed eventi straordinari: dalla morte di Pasolini a Le mosche del capitale di Volponi (Premio Strega 1989); lo slancio della libertà per tutti; la fine dell’Unione Sovietica e della Guerra fredda; la morte dei partiti in Italia e Mani Pulite. Il Duemila si è inaugurato con Berlusconi e praticamente lì è rimasto».
Perché scrive che la storia è ormai un valore perduto?
«La memoria è stata sostituita dall’ingordigia del presente».
Che cosa la colpì di Carlo Lizzani, al quale dedica un ritratto intenso?
«Lizzani, diciannovenne fascista, scriveva di cinema nella rivista dei Giovani universitari fascisti già rivelando nelle sue critiche la scelta, al posto dell’ideologia, della concretezza e il materialismo dei fatti».
Come descriverebbe il suo rapporto con Roma da quella vissuta sotto ai bombardamenti?
«Confesso che la guerra, le sirene e i bombardamenti arrivarono, quando avevo dieci anni, come diversivo e avventura. Roma è la più bella città d’Italia, ma è male amministrata, disordinata e sporca. E la quotidianità della vita dei suoi cittadini ne soffre».
Quando ha smesso di avere paura?
«Alla mia età».