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 2019  luglio 08 Lunedì calendario

I 120 anni della Fiat

Erano un’altra Italia e un’altra Torino, soprattutto un altro mondo. Quelli di 120 anni fa, quando l’11 luglio 1899 un gruppo di aristocratici, professionisti, banchieri, possidenti e imprenditori firmarono, davanti al notaio Ernesto Torretta, nel palazzo del conte Emanuele Cacherano di Bricherasio, (il vero regista dell’inizio di quella straordinaria avventura, come ha rievocato Massimo Novelli nell’edizione del 24 giugno), l’atto costitutivo della “Fabbrica Italiana Automobili Torino”, poi conosciuta e raccontata solo con il suo acronimo, Fiat; scomparso nel 2014 in piena era Marchionne e sostituito dal nuovo brand di un’azienda con il cuore negli Usa e le sedi fiscale e legale a Londra e ad Amsterdam: Fca, “Fiat Chrysler Automobiles”.
Un quadro di Lorenzo Delleani immortalò quell’evento, organizzato dopo alcune chiacchiere in un bar tabarin: al centro, seduto alla scrivania e intento a firmare, ecco il conte in giacca chiara. Il secondo alla sua destra, invece, è Giovanni Francesco Luigi Edoardo Aniceto Agnelli, benestante e proprietario terriero di Villar Perosa (vicino a Pinerolo, nelle terre dell’eresia valdese), ex ufficiale del Savoia Cavalleria. Pochi anni dopo, anche in seguito a forti contrasti societari e giudiziari, sarebbe diventato il proprietario di tutto, legando per sempre la Fiat agli Agnelli. Il nome della famiglia e quello della fabbrica: intercambiabili, nelle cronache economiche e sindacali, nel mito dell’Avvocato (quasi un principe, simbolo della rinascita italiana dopo la Seconda Guerra mondiale), persino negli slogan delle proteste operaie. Da questo punto di vista (forse l’ultimo a resistere), oggi è ancora così: anche se il presidente di Fca porta pure lui un altro nome, John Elkann detto Jaki, nipote di Gianni Agnelli.
Ma che cosa resta, davvero, di quel pezzo di storia nazionale e mondiale? Di uno spaccato multiforme e gigantesco che ha segnato e modificato la società italiana, con la sua produzione industriale, la diffusione dell’automobile come bene di massa, l’influenza del capitalismo degli Agnelli e dei loro collaboratori sulla politica, dall’Italia prefascista sino al boom economico e al declino della Prima Repubblica, passando per le lotte e le occupazioni del “biennio rosso”, il ventennio e il regime di Mussolini, mai amato davvero, sopportato (probabilmente disprezzato) con un cipiglio quasi aristocratico, ma fiancheggiato per il tornaconto che gli interessi dell’azienda giustificavano a dismisura. Infine, nella Torino “laboratorio d’Italia”, il polo antagonista dei “padroni” (appoggiato dalle forze politiche conservatrici di un Paese immerso nella realtà dei due blocchi mondiali). Una formidabile e pervicace macchina per lo sfruttamento del lavoro e delle esistenze altrui contrapposta, nella lotta di classe, ai propri lavoratori, alle forze della sinistra, al Pci nella stessa città degli esordi di Antonio Gramsci e di Palmiro Togliatti e poi del “sindaco rosso” Diego Novelli, al sindacato, agli “operai massa” dell’Autunno caldo del 1969 (un’altra ricorrenza: tutto cominciò 50 anni fa con gli scontri di corso Traiano a Torino, il 3 luglio) e dell’immigrazione dal Sud, alla irriducibile “sinistra sociale” del dc torinese Carlo Donat-Cattin, alla Chiesa conciliare di Padre Michele Pellegrino, fino al trionfo finale dei “35 giorni” e della “marcia dei 40 mila” del 1980, dopo le tragedie degli Anni di piombo. Da Vittorio Valletta sino a Cesare Romiti: il tutto sempre accompagnato dal giornalismo cordiale de La Stampa (e non solo) e dall’oppio dei popoli della Juventus dei giocatori meridionali come Pietro Anastasi, nella metropoli gonfiata dagli immigrati. Con in mezzo la pagina nera delle “schedature Fiat”: scoperte nel 1971 e che riguardarono 357.077 persone tra dipendenti, politici, sindacalisti, cittadini.
Il caso, il fato che nell’antica Roma piegava persino la volontà di Giove, ha voluto che il compiersi di quei 120 anni giunga proprio poco prima di un altro anniversario, questa volta triste ma altrettanto simbolico: il primo dalla scomparsa, il 25 luglio 2018, di Sergio Marchionne, il manager italo-svizzero-canadese che, nel 2004, era stato nominato, alla morte di Umberto Agnelli, amministratore delegato di una Fiat disperata, sull’orlo del dover portare i libri in tribunale, “prigioniera” delle banche creditrici e di un patto societario con General Motors che rischiava di provocarne la definitiva distruzione come entità italiana e autonoma. Ma anche, nelle due ultime settimane, da accadimenti che turbano il futuro, da una parte, e che ripropongono invece un sempiterno interrogativo (dura anch’esso da quasi 120 anni), dall’altra: quante colpe ha la politica italiana, di qualsiasi colore (nel passato come oggi), per aver lasciato fare alla Fiat (e poi a Fca) tutto ciò che voleva?
Le cronache più recenti, infatti, raccontano del fallimento della trattativa con Renault e Nissan per una fusione che avrebbe significato la nascita di un colosso mondiale (e forse anche la prima “diluizione” della presenza degli eredi Agnelli nel nuovo gruppo), del tonfo nelle vendite di auto nel mercato europeo e italiano, ma anche delle rampogne del presidente dell’Antitrust, Roberto Rustichelli, che ha sottolineato “il rilevante danno causato dal trasferimento della sede fiscale a Londra di quella che era la principale azienda automobilistica italiana”.
Fca si prepara a celebrare quell’11 luglio 1899 soprattutto grazie all’emissione, da parte di Poste italiane, di un francobollo che riproduce il suo primo modello, la Fiat 3 Hp. Destinato alla posta prioritaria verso l’Europa, “ma sarebbe più giusto che fosse stato stampato negli Usa – commenta Giorgio Airaudo, ex segretario della Fiom-Cgil piemontese ed ex parlamentare di Sel – Si potrebbe così usarlo per mandare i saluti a Torino, da parte di chi ha portato l’azienda, ciò che oggi di essa conta ancora nel mondo, a Detroit”.
Ed è dunque da qui, forse, che bisogna partire per intercettare sul serio questi 120 anni: che cosa sopravvive di italiano dunque in quel gruppo e quale domani gli si può vaticinare? Per il resto, invece, rimane il volume di 2093 pagine di Valerio Castronovo, voluto da Gianni Agnelli e pubblicato da Rizzoli per il centenario del 1999 (Fiat, un secolo di storia italiana). Quel luglio di 20 anni fa fu animato anch’esso da un francobollo, ma soprattutto da una due giorni di festeggiamenti con la presentazione della Nuova Punto, dalla visita del presidente della Repubblica Ciampi che incontrò anche Norberto Bobbio (“Abbiamo parlato della politica come filosofia di vita, come morale, come impegno etico”, raccontò il filosofo), una cena al Lingotto per 3 mila inviati (c’era, da presidente del Consiglio, Massimo D’Alema; menù: risotto, rombo, anatra, torta di crema, chardonnay, barolo e moscato) e un spettacolo dei Momix.. Ancora una volta, un altro mondo, un’altra Italia e un’altra Torino.
Il volume di Castronovo, adesso, andrebbe solo aggiornato con il racconto dei 14 anni della grande cavalcata di Marchionne, il salvataggio dalle banche e da Gm, la vittoria sulla Fiom, la “scoperta dell’America” con l’acquisizione di Chrysler, il cambio di nome e la “fuga fiscale”.
“Gli ultimi avvenimenti, soprattutto il tramonto dell’alleanza con Renault-Nissan, sono inquietanti – prosegue Airaudo – Con un’azienda ormai americana e i suoi stabilimenti italiani e le vendite nel segmento europeo che ne costituiscono la vera debolezza: una sorta di vagone di coda del convoglio Fca. E con carenze assolute nel campo della ricerca, tanto sul fronte dell’auto elettrica quanto su quello delle emissioni che ha costretto il gruppo ad acquistare da Tesla i bonus ambientali per evitare multe miliardarie”. Nelle parole dell’antico avversario di Marchionne, ritornano anche i temi che, per decenni, pur nello scontro, avevano mantenuto i toni quasi di un riconoscimento reciproco. “La Fiat è stata in qualche modo al centro di un sistema bilanciato, nel quale con costi sociali altissimi, quelli pagati dalle migliaia di lavoratori, e di politiche industriali che le garantivano il monopolio e la tutela degli ammortizzatori sociali, assicurava lavoro. Finchè sono stati vivi Gianni e Umberto Agnelli, l’italianità della Fiat non era in discussione. Oggi non è più così. Prima l’azienda è diventata apolide, poi statunitense”.
Ma quanto manca il manager scomparso un anno fa? Davvero le cose potrebbero cambiare se ci fosse ancora Marchionne, proprio l’uomo della denazionalizzazione della Fiat? “Non ha mai senso chiedersi che cosa farebbe chi non c’è più. Lui, però, avrebbe forse saputo approfittare persino dell’insuccesso con Renault. Magari prendendo al balzo quella sia pur flebile discussione su un ruolo dello Stato italiano nella crisi del settore auto. Non certo per un ingresso pubblico nel capitale come in Francia, ma magari con un prestito, da restituire. In fondo, è ciò che ha fatto con Chrysler e con Obama, seguendo l’esempio di Lee Iacocca, morto pochi giorni fa. E quando è arrivato Trump, che chiedeva di produrre negli Usa, non ha esitò a trasferire una fabbrica dal Messico. Ecco, il problema non è solo dove va Fca, ma che cosa intende fare l’Italia”.
Un discorso difficile, visto il passato (Matteo Renzi: “Io sto con Marchionne, senza se e senza ma”), ma anche i balbettii del governo gialloverde nei giorni del tramonto delle trattative con Parigi. “Servirebbe uno scatto della politica, decidendo se si crede che il nostro Paese possa ancora avere un ruolo nella produzione automobilistica. Si deve pretendere chiarezza da Elkann: sulle sue intenzioni e sulle possibilità che gli stabilimenti italiani abbiano davvero una vita. Il che non vuol dire per forza che tutto debba restare Fca. In una logica di una vendita-spezzatino del gruppo, per esempio, sarebbe interessante sapere se il nostro governo è interessato a favorire l’arrivo di nuovi produttori. Ma allora ci vorrebbe anche l’impegno per lo sviluppo di infrastrutture, tecnologie, ricerca, nuova mobilità: ciò che serve a un moderno mercato dell’auto”.
Un pessimismo che lo choc Renault-Nissan sembra accentuare. “Il rischio è che gli ammortizzatori sociali che stanno coprendo la crisi italiana del gruppo, a Mirafiori e Pomigliano soprattutto dove si lavora al massimo cinque giorni al mese, si esauriscano prima che giungano novità. Che il costo sociale si presenti quando sarà troppo tardi. Mi chiedo, ma lo chiedo soprattutto al goveerno, perché giustamente si richiamano i Benetton su Atlantia e le concessioni autostradali, mentre si tace su Fca?”.
Nel 1991, nel suo Il Provinciale, Giorgio Bocca scrisse così, rievocando la Fiat di Valletta: “Una grande caserma e, in caserma, chi può stangare il sottoposto si consola delle stangate dei superiori e si convince che una somma di violenze e sofferenze magari cretine, ma sopportate perché fanno parte dell’impresa comune, del capitale accumulato, delle tradizioni consolidate, tutto sommato sono una cosa buona”. Una torsione che Bocca aveva intuito e che forse, già allora, avrebbe saputo spiegare quella coda di 100 mila persone sulle rampe del Lingotto, nel gennaio 2003, per l’ultimo omaggio alla bara dell’Avvocato. Tra loro, è probabile, anche molti di quelli che, nei cortei, gridavano: “Agnelli, Pirelli: ladri gemelli!”.
Airaudo, potrebbe accadere ancora, nella Torino che vivrà i 120 anni della Fiat solo con un francobollo? “Penso proprio di no. Comincio a credere che adesso la città si senta tradita. Nel bene e nel male, ha dato molto all’azienda e alla sua proprietà. Ha anche ricevuto, ma il bilancio è di gran lunga a favore della Fiat. Oggi credo che la sensazione vera sia, invece, quella di un tradimento che si è compiuto”.