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 2019  luglio 07 Domenica calendario

Gli orfani dell’Isis

Per lui le regole non valgono. Quando gli passano il pallone Mohammad Kamal si sporge dalla carrozzella e «calcia» come può, con il pugno, l’avambraccio, il gomito, la testa, le spalle. Gli altri attendono pazienti. Uno tra i più piccoli, avrà sette o otto anni, lo incoraggia spingendo la carrozzella. E Mohammad accenna a un sorriso dal viso altrimenti serio. Se gli chiedi come ha perso le gambe (la destra è recisa in alto, quasi all’inguine, la sinistra appena sotto al ginocchio) risponde in breve che il «fatto» è avvenuto davanti a casa sua a Deir al Azor lo scorso novembre, aveva appena compiuto dieci anni. «Una bomba americana dal cielo. Ero vicino a mio papà, che è morto sul colpo. Io mi sono svegliato all’ospedale e i medici di Isis mi hanno detto che avrei avuto bisogno della carrozzella». Poi accenna un movimento scocciato delle mani, come se non parlasse di sé.

I bambini giocano allegri tra le tende del gigantesco campo di prigionia di Al Hol, nella Siria nordorientale, a un centinaio di chilometri da Raqqa, una regione che è stata parte della Siria di Assad, poi del Califfato dell’Isis e oggi appartiene all’autoproclamato territorio curdo. A lato delle porte, segnate con mucchi di pietre, altri bambini portano nel corpo le ferite della guerra da cui sono appena usciti. Ci sono Yasser di sei anni e Mahmoud, di cinque, tetraplegici. Un altro ha la testa bendata. Ma non ci sono solo feriti, l’intero campo pullula di ragazzini malvestiti, pantaloni impolverati, magliette macchiate. Molti non hanno le scarpe. Vengono da Aleppo, da Homs, da Raqqa, gli ultimi arrivati hanno visto l’inferno nella battaglia di Baghouz a metà marzo. «La lettura» è stata qui a metà aprile, ancora inverno, ancora freddo.
Si calcola che circa duemila siano i morti nelle ultime fasi della guerra nelle roccaforti dell’Isis accerchiate dai militari curdi sostenuti dalla coalizione occidentale a guida americana. Di loro almeno 170 sarebbero bambini che cercavano di scappare da Baghouz. È da là che li abbiamo seguiti. Con le madri totalmente velate – vedove nere dell’Isis – che non nascondono le simpatie per il Califfato. «Il Califfo non è battuto. Questa è una parentesi. Tornerà, torneremo, alla fine vinceremo noi», dicono un paio, che non vogliono rivelare i loro nomi e si nascondono alle telecamere. Tutte recitano biografie di violenza, paura, lutti. «Le donne sono spesso più fanatiche degli uomini. Si coprono il viso per sottolineare che il loro credo nella jihad non è morto», accusano le sentinelle curde del campo. Così è naturale domandarsi: ma con madri tanto radicali, con i padri morti in guerra, come faranno i figli a disintossicarsi? Perché, nonostante l’apparente tranquillità dei giochi, nonostante le tragedie di cui sono stati vittime o testimoni, non va dimenticato che Isis li aveva indottrinati, addestrati, abituati alla morte, a odiare e decapitare i «traditori» e i non musulmani, a uccidere i prigionieri con un colpo di pistola alla testa, a offrirsi per gli attentati suicidi. E loro hanno sempre risposto sì.
«Cos’è un bambino di Isis, solo un bambino, oppure una bomba ad orologeria?», titolava il «New York Times» qualche tempo fa. Saranno la prossima generazione di terroristi? Tra i quasi 80 mila prigionieri dei curdi ad Al Hol, oltre 29 mila sono bambini (spesso orfani di entrambi i genitori), di questi 20 mila iracheni e gli altri figli di combattenti stranieri arrivati da una cinquantina di Paesi – in maggioranza russi, francesi, tedeschi, tunisini, algerini, belgi, australiani, sauditi, libici, marocchini. Per tre o quattro anni e anche più sono stati immersi nell’ideologia del Califfato, nelle sue scuole hanno incarnato l’idealtipo degli «uomini nuovi» pensati da Abu Bakr al Baghdadi, programmati per diventare i jihadisti del futuro. C’è chi li ha paragonati alla Hitlerjugend rivista e adattata in versione islamica.
«Non c’è dubbio che siano pericolosi. A loro è stata inculcata un’educazione alla morte fondata in molti casi sulla cancellazione degli affetti e di legami familiari da cui è impossibile tornare indietro, se non con un lungo e delicato processo di intervento psicologico», spiega a «la Lettura» Bruno Maida, docente all’università di Torino specializzato sui temi relativi ai bambini in zone di conflitto e autore di un libro fondamentale come L’infanzia nelle guerre del Novecento (Einaudi, 2017).
Pensiamo per esempio ai bambini yazidi, la minoranza orribilmente perseguitata da Isis in Iraq, dove gli adulti maschi sono stati metodicamente massacrati nel 2014 e le donne spesso catturate per farne schiave sessuali. Sradicati dai loro affetti familiari, questi ragazzini sono stati «rieducati» in batteria per diventare milizie d’assalto del Califfato. I militari curdi durante gli assedi di Raqqa e Mosul tra la primavera 2016 e l’autunno 2017 temevano i bambini. «Sono bombe umane efficacissime, veloci e obbedienti ai capi», dicevano per giustificare l’ordine impartito ai cecchini di prenderli di mira. Sono quasi le stesse parole utilizzate da un ufficiale ribelle congolese, che nel 1999 denunciava la sorprendente capacità militare dei bambini: «Obbediscono agli ordini meglio e con più fanatismo degli adulti; non hanno mogli e figli da cui tornare; non conoscono la paura».
Si spiega così la politica dell’isolamento. Tanti parlano di loro, ma in verità nessuno o pochi sono pronti a rimpatriarli. Le cronache delle ultime settimane registrano alcune decine di rientri di «orfani di Isis» in Russia (Mosca ne ha accolti un centinaio a fine febbraio), si contano sulle dita di una mano quelli tornati in Belgio, Germania e Francia. Parigi lascia che i jihadisti più pericolosi, pur con passaporto francese, siano estradati in Iraq, quindi processati secondo le durissime leggi antiterrorismo e impiccati a Bagdad. A Bruxelles ci sono alcune coppie di nonni che sarebbero pronte a riprendersi i nipoti rimasti orfani, ma il governo si oppone. Lo stesso avviene in Australia, dove i tre figli superstiti (erano sei) del famoso jihadista ricercato prima di rimanere ucciso di recente, Khaled Sharruf, e della moglie Karen Nettleton, deceduta d’appendicite a Raqqa nel 2015, sarebbero accolti dalla nonna. Ma le autorità negano i visti. Le foto di Sharruf con i figli che mostrano fieri i loro kalashnikov e un paio di teste mozzate restano motivo d’apprensione. Una delle figlie ancora vive si chiama Zeynab, è incinta dopo che a 13 anni era stata data in sposa a un combattente amico del padre (a sua volta morto in battaglia) e da cui ha già avuto due figli. La Gran Bretagna ha ritirato la nazionalità di circa 150 figli di noti jihadisti inglesi volontari con Isis, rendendoli apolidi.
Bruno Maida coglie nel fenomeno dei bambini-soldato una delle specificità più deleterie dei conflitti dalla seconda metà del Novecento a oggi. Con una precisazione importante: «Le dittature moderne hanno sempre visto nell’educazione alla guerra delle nuove generazioni un ottimo sistema per costruire non solo il loro “uomo nuovo”, ma anche per porre le basi della loro utopica società totalitaria. Nonostante la retorica buonista contemporanea della supposta innocenza dell’infanzia, i bambini sono una costante inevitabile della guerra, non come vittime, ma come attori coinvolti». Valeva per i balilla di Mussolini, come per i pionieri di Stalin e ancora di più per le organizzazioni giovanili naziste. In quei casi però, sebbene si glorificasse il mito degli eroi caduti, il massacro metodico dei bambini costituiva un’aporia impossibile. Aggiunge Maida: «Se i bambini educati dal regime rappresentavano il futuro, come si poteva mandarli a morire? Sarebbe equivalso a un auto-annientamento. In effetti, le dittature della prima metà del XX secolo cercarono sempre di preservare i loro piccoli “uomini nuovi” e i tedeschi sacrificarono la Hitlerjugend solo quando il regime era ormai al collasso».

Del tutto diversa è la situazione nei conflitti seguiti alla decolonizzazione, soprattutto dopo la fine della guerra fredda. Ancora Maida: «L’ultimo trentennio assiste a guerre anarchiche, senza regole, con bande predatrici: l’infanzia non è più protetta, ma utilizzata da chi combatte e la distruzione e spoliazione del territorio diventa fine a sé stessa. In Africa spesso è pura razzia, brutale, primitiva. In questo contesto, Isis ha spezzato anche l’ultimo tabù: come esaltava la decapitazione dei suoi prigionieri, così glorificava, fotografava, aizzava i bambini soldato. Inneggiava ai suoi piccoli kamikaze mandati a farsi saltare in aria contro i veicoli curdi. È un elemento totalmente nuovo. Sino a oggi le guerriglie in Sierra Leone, Congo, Nicaragua o Myanmar tendono a nascondere l’utilizzo dei bambini. Isis invece ne ha fatto i suoi eroi. Ecco il motivo per cui oggi sono molto difficili, se non impossibili, da rieducare. Per loro la guerra è un dato identitario, formativo, esistenziale».
Il precedente più vicino a Isis è, secondo lo storico torinese, l’utilizzo dei ragazzi da parte del regime khomeinista contro l’Iraq negli anni Ottanta. In Iran si creò un ethos tale per cui non offrirsi di andare a morire produceva un’onta sociale e un senso di colpa insopportabili. Oltre centomila persero la vita, mandati all’assalto inneggiando alla «guerra santa per Allah», sui campi minati per aprire la strada alle truppe regolari. «Arrivavano a ondate terrificanti, con la bandana dei martiri legata alla fronte, felici di farsi trucidare dalle mitragliatrici. Gridavano che erano fieri di cadere per liberare Karbala e Najaf, le città sante degli sciiti in Iraq. Spesso erano solo armati di coltello e una bomba a mano. Non avevano scampo», raccontavano pochi anni dopo gli ufficiali di Saddam Hussein ancora sbalorditi per quella plateale volontà di morte. «Davanti a indottrinamenti di questo tipo – rincara Maida – le cure sono complicatissime. Quelle generazioni sono segnate. I bambini di Isis andrebbero subito portati via da Al Hol, che resta un incubatore di estremismo e malcontento. Basti pensare quanto i campi profughi palestinesi siano stati fucine di estremismo nei decenni. Ma comprensibilmente sono pochi a volerli. E il problema resta aperto».