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 2019  luglio 07 Domenica calendario

La casa-museo di Emilio Isgrò

Il regno di Emilio Isgrò è una palazzina in una traversa tranquilla di viale Monza a Milano. Nel cortile silenzioso una pianta di chinotto è il discreto omaggio fatto alle origini siciliane dell’artista (nato 81 anni fa a Barcellona Pozzo di Gotto, Messina) dalla moglie Scilla, sua amorosa e pratica alter ego, completamente votata alla causa («ha fatto l’inenarrabile per me» riconosce lui). È uno spazio di circa 1.500 metri quadrati su due livelli: al piano terra un piccolo, intimo studio riparato da una libreria, un salotto con un tavolino basso, volumi d’arte e videocassette dei film di Walt Disney negli scaffali. Una porta conduce all’archivio (diretto da Scilla), pieno di faldoni e di opere, collegato con il grande laboratorio che un tempo era la sartoria di una signora che qui faceva anche le sfilate: «Me l’hanno venduta le figlie, ex modelle, delle spilungone molto belle ma già anziane» ricorda Isgrò che ha anche un laboratorio più grande a Bergamo. 
In questa specie di moderna villa di campagna Isgrò vive, lavora, e ora anche espone e riceve visitatori. Al primo piano, in uno spazio che una volta era il suo appartamento e ancora prima una vecchia stazione di posta dove le diligenze che da Monza andavano verso il Castello Sforzesco si fermavano a cambiare i cavalli, ha deciso di aprire l’Istituto Emilio e Scilla Isgrò, «un istituto della cancellatura per la ricostruzione delle arti e dei linguaggi umani». Un luogo privato che diventa pubblico, aperto a studenti (qui, per consultare l’archivio, ne vengono molti, anche stranieri), artisti, associazioni che vogliono approfondire la conoscenza di un linguaggio, quello delle cancellature, che ha cambiato le sorti dell’arte contemporanea ed è la cifra più riconoscibile di Emilio Isgrò. È il contributo dell’artista siciliano a un quartiere in crescita, realizzato tutto a sue spese: «Non ho chiesto soldi, mi basta che non mi mettano i bastoni tra le ruote» sorride guardando queste stanze che in futuro potrebbero diventare una casa-museo, una fondazione, se si trovassero anche contributi esterni. «Lo faccio con l’idea che resti, lo vorrei donare a Milano. Perché, altrimenti, dove andranno a finire le mie opere? Non ho figli e sono affezionato a questa città. Mi ha dato tutto, è un modo per restituire qualcosa. La strada migliore per marcare la differenza, oggi più che mai, è la cultura. Apro il mio studio perché la gente, entrando, mi insegni ancora qualcosa». 
Il 12 luglio lo spazio verrà presentato in una conferenza stampa che annuncerà anche l’altro grande progetto che coinvolge l’artista: dal 14 settembre al 24 novembre una mostra curata da Germano Celant trasformerà la Fondazione Cini sull’isola di San Giorgio a Venezia in un enorme ventre della balena che avvolgerà una mostra antologica. Isgrò non vuole anticipare nulla, ma si sa che le pareti saranno una specie di marsupio con il testo, in inglese, del Moby Dick di Melville cancellato, su cui «transiteranno» le altre opere, mentre il catalogo, curato da Celant, sarà un prezioso volume Treccani.

Quello che Isgrò chiama con il suo solito understatement istituto e che al visitatore non può che apparire, a tutti gli effetti, un museo, è un progetto aperto, per poche ore, lo scorso marzo in occasione della rassegna Museo City. «È venuto l’assessore alla Cultura Filippo Del Corno e io ho fatto una visita guidata per una trentina di persone, cosa che ho intenzione di mantenere, una volta al mese, su prenotazione a partire dall’autunno. Porto i visitatori e racconto le opere, come stiamo facendo ora». Isgrò definisce il progetto l’esito di un misto di coraggio e incoscienza e in effetti non si può dargli torto visitando queste otto Stanze (più corridoio e terrazza), dove la vista in prospettiva dei rossi che emergono dal mare di bianco è spettacolare anche grazie al lavoro di Piero Castiglioni, grande architetto delle luci, amico di Isgrò, che ha dato agli ambienti un’illuminazione grandiosa e sobria. Nelle Stanze viene presentata una selezione storica e ragionata dell’opera visiva di Isgrò a partire dalla «Cancellatura», la prima, di un piccolo testo giornalistico. Datata 1964, è stata realizzata quando l’artista dirigeva le pagine culturali del «Gazzettino» di Venezia («I miei titoli – ricorda – erano già poesia visiva»). «L’istituto è uno spazio sorto un po’ alla volta, nell’arco di questi ultimi tre anni, ci ho riversato tutto ciò che guadagnavo vendendo le mie opere – spiega Isgrò —. A un certo punto mi sono accorto che me ne ero tenute troppe, di opere, un po’ perché non volevo venderle, un po’ perché, soprattutto quando ero giovane, non mi era facile farlo. Però ho continuato, avevo fiducia, ero pronto a perdere la partita. Se non sei disposto a perdere non puoi nemmeno vincere».
La paura di Isgrò con questo progetto era di realizzare un auto-monumento. «Ho cercato di starci attento. Volevo che fosse un luogo di studio. Ho pensato: visto che i giovani vengono a preparare le tesi di laurea gli mettiamo a disposizione anche le opere, oltre agli archivi. Mi piace perdere tempo con gli studenti, so che una mia parola, un sorriso possono aiutarli. Anche per me da ragazzo è stato così». L’idea sottesa a questo istituto per la ricostruzione dei linguaggi umani, che siano essi parola o immagine, è il centro dell’intera opera di Isgrò: «Nell’epoca della comunicazione abbiamo il silenzio più disperato. L’arte, ricostruendo i propri strumenti e le proprie ragioni, si fa responsabile, oltre che di sé stessa, di un’arte del vivere che è alla base di ogni crescita umana» dice mostrando la cartina dell’Inghilterra, i testi indiani, l’Antico Testamento, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, appesi alle pareti, tutti cancellati: «È un problema antropologico e filosofico: potrà sopravvivere la parola? Potrà sopravvivere l’immagine? O tutto è destinato a diventare virtuale? Cancello la parola per salvarla: è una forma di igiene mentale del linguaggio che non nega il testo, ma lo esalta, attirando l’attenzione su ciò che c’era prima. Se la globalizzazione annulla i confini geografici, sociali, culturali ed economici, la cancellatura li riapre». 

Il lavoro di Isgrò ha subito la pena di essere conosciuto in minima parte, ma nell’allestimento, che può cambiare nel tempo, non ci sono soltanto le cancellature («in questa Carta del Nord Europa, cancellata negli anni Settanta, Emilio mi ha detto che ha lasciato una città, sono anni che la cerco ma non la trovo» ride Scilla). C’è L’Italia che dorme, scultura in alluminio del 2008, ricoperta di scarafaggi; c’è la Preghiera per l’Europa, realizzata in occasione della Giornata del contemporaneo; ci sono cinque opere del 1966, Quale delle due frecce, dove non si sa qual è la freccia che indica e la freccia indicata. Ci sono i rimpicciolimenti e gli ingrandimenti, di sé, di Brigitte Bardot, di Leonid Breznev: «Ho scelto di far diventare grandi le piccole cose, non piccole le grandi». Ci sono le formiche, di cui Isgrò si è servito in molte installazioni: «L’insetto più globale che ci sia, rappresenta lo scorrere del tempo ma anche l’operosità umana». Ci sono le pagine cancellate di L’avventurosa vita di Emilio Isgrò, pubblicato dal Formichiere nel 1974, romanzo destrutturato con cui partecipò al Premio Strega. Perché Isgrò nasce poeta, ha un forte coté letterario che per un certo periodo di tempo ha trascurato, anche per non correre il rischio di essere considerato il solito «scrittore che dipinge»: «Non potevo coprire il campo a 360 gradi, ma adesso riscopro anche la scrittura. La cancellatura è diventata la chiave di volta per tutto il resto».
Non a caso nell’Istituto, oltre alle Stanze, c’è anche una Sala dedicata a eventi artistici e letterari, dalla presentazione di libri alle letture di poesia, per rafforzare la consapevolezza che la letteratura rappresenti uno dei momenti necessari per la comprensione dell’arte contemporanea. Alla poesia, suo primo amore, Emilio Isgrò ritorna con un libro che in settembre uscirà da Guanda e che sarà presentato al Cortile di Francesco, la rassegna che si tiene ad Assisi. Quel che resta di Dio è il titolo della raccolta che in copertina ha, naturalmente, un’opera dello stesso Isgrò, Dio non sa leggere. «Sono poesie che ho scritto contemporaneamente ad altre che sono uscite in volume, sono state rimaneggiate e rifatte nel corso degli anni, a volte per una virgola, a volte per un aggettivo, a volte per niente, al punto che oggi non so più dire quale è stata scritta prima e quale è stata scritta dopo».
Diviso in sezioni tematiche, è un libro molto narrante, con punti di lirica pura. L’artista declina quello che resta dell’America, dei luoghi, degli Isgrò, dell’amore, del Mediterraneo. «È un libro sui residui» sintetizza prima di leggere a voce alta «Madre generale», il componimento dedicato a Scilla sulla morte di Mimmo, il gatto che «insegnava a lui la tenerezza, a lei la calma». Ci sono anche i versi per il fratello Bruno, «arrivato per ultimo, partito per primo», morto due mesi fa, un grande dolore inevaso: «Non era il caso», dice rendendo poetiche parole comuni.