La Lettura, 7 luglio 2019
Un’altra Napoli in un selfie
Si torna a Napoli, ancora una volta in questa città auscultata, radiografata, serializzata, e messa di tre quarti e messa di profilo e virata in colori sempre più lividi e stilosi, o comunque allestita come una specie di Serengeti per documentaristi sociali. Si torna a Napoli, pronti all’ennesima inchiesta a fini di intrattenimento, e invece si resta di stucco, perché Selfie di Agostino Ferrente è un film universale sulla forma d’amore più nobile, l’amicizia, un film la cui idea portante chiama in gioco l’arte quasi più del cinema e spazza via ogni precedente (e ogni pregiudizio). Ma procediamo con ordine.
Sei anni dopo Le cose belle, co-diretto con Giovanni Piperno, il regista pugliese si riaffaccia sulla realtà partenopea con un film presentato in anteprima al festival di Berlino di quest’anno e vincitore del festival di Lussemburgo come miglior documentario. Selfie, dunque.
Attratto da un fatto di cronaca, l’uccisione del sedicenne Davide Bifolco a cui un carabiniere ha sparato scambiandolo per un latitante, Ferrente si avvia al rione Traiano con l’intenzione, immagino, di scavare un po’ più a fondo dei servizi giornalistici e si imbatte in due amici del ragazzo ucciso, testimoni dell’omicidio, che diventeranno da subito il dono più inatteso, per noi e prima ancora per il regista che avrà la sensibilità di coglierlo costruendoci attorno il suo progetto. Il rione Traiano è nato come baraccopoli per i senzatetto del dopoguerra, trasformandosi presto in ghetto. Dato il diffuso degrado e la criminalità a cui è assoggettato il quartiere, Alessandro e Pietro sono due sedicenni anomali: uno lavora in un bar, l’altro cerca un posto di parrucchiere. Pur mantenendo rapporti diciamo di buon vicinato con la manovalanza dello spaccio, entrambi si sottraggono alla lusinga del ferro e dei soldi facili. La loro amicizia prende forza e significato dal sostegno reciproco, l’uno in soccorso dell’altro per tenersi fuori dai guai e di fatto dall’ethos condiviso dei loro coetanei, l’ethos telegenico della guapperia. Già questo basterebbe a farne un film interessante, due ragazzi ostinatamente buoni, stranamente immuni dal male.
Ma il colpo di genio di Ferrente sta nel rovesciamento dello sguardo che spiega il titolo: saranno gli stessi protagonisti a filmarsi, il regista gli consegnerà uno smartphone e loro diventeranno degli attori-operatori. D’altronde, chi sa farlo meglio dei ragazzi? Filmarsi, fotografarsi, postarsi. È il nuovo linguaggio universale, parlato sia dai figli di Posillipo sia di quelli del rione Traiano. I ragazzi, ma sempre più anche gli adulti, di ogni livello sociale e culturale, fanno esperienza del mondo attraverso il filtro dell’autoritratto. Superata l’idea di una vita esperita in interiore animo, l’oggetto di ogni esperienza – si tratti di un paesaggio, un monumento o il volto della fidanzata – non viene più semplicemente tradotto in pixel, ma viene visto per così dire voltandogli le spalle, tenuto sullo sfondo mentre ci si inquadra in primo piano. Ecco allora l’intuizione di far parlare i due protagonisti attraverso gli occhi più ancora che attraverso le parole, metterli nelle condizioni di mostrarci il loro mondo con le loro facce davanti. Alessandro si filmerà mentre Pietro gli farà la messa in piega. Pietro si filmerà in motorino mentre Alessandro alle sue spalle, su un altro motorino, consegnerà i caffè ai clienti del quartiere come un giocoliere, una mano sull’acceleratore, l’altra a reggere il vassoio. Insieme si filmeranno intenti a mangiare, a parlare di ragazze, a fare il bagno al mare, a prendersi in giro, a festeggiare il compleanno abbracciati e commossi, quasi spaventati da quel sentimento di appartenenza tipico delle amicizie giovanili, un sentimento incondizionato che confina con la passione pur restando una libera scelta dell’intelletto, un’elezione reciproca più forte dei legami di sangue, più alta dell’attrazione amorosa. Un’amicizia che nel film si arricchisce di un tratto involontariamente donchisciottesco, contro le famiglie, i padrini, la sventura delle fanciulle già settate sul «portare rispetto» ai principi azzurri che verranno loro in sorte dall’inesauribile vivaio camorristico.
La videocamera nelle mani dei due attori-operatori libera un’energia anarcoide a dir poco esplosiva e si libera dai vincoli della messinscena, guadagna in spontaneità, in naturalezza (parliamo di attori non professionisti), penetra gli strati più profondi dell’intimità, stana il nucleo pulsante della vita nelle pieghe ormai più che perlustrate della cosiddetta realtà.
Ovviamente ciò richiede che il regista abbia l’intelligenza di abdicare alla sovranità dell’inquadratura e lavori con gli occhi dei suoi testimoni, come uno sguardo dello sguardo, scegliendo dalle centinaia di ore di riprese non casuali, non acefale, ma certo compiute senza la sua direzione, e inventando poi il film in fase di montaggio.
Il risultato è ancora più sorprendente se si considera che la generosità dell’autore viene esercitata attraverso il mezzo espressivo che più di ogni altro enfatizza l’egocentrismo contemporaneo. Il primo selfie della storia pensato davvero per il destinatario, il primo in cui ci si mette davvero la faccia.