La Lettura, 7 luglio 2019
Una mostra sulla storia degli specchi
«Gli specchi dovrebbero pensare più a lungo prima di riflettere»: certo, Jean Cocteau, che la sapeva lunga sull’animo umano, sembra anticipare davvero i codici narcisistici del nostro tempo, a cominciare dall’uso smodato del selfie. E in particolare davanti allo specchio. Non è un caso, infatti, che per la mostra Specchio. Il riflesso dell’io al Rietberg Museum di Zurigo (fino al 22 settembre) sia stata allestita proprio all’entrata una vera macchina da selfie: qui, di fronte a un infinito gioco di specchi deformanti il popolo che abita lo spazio del web (e che posta ogni frammento di vita) non riuscirà ad astenersi dal fermare l’immagine del proprio corpo. E forse anche della propria anima.
È proprio questo il tema di una mostra che indaga trasversalmente, tra antropologia, archeologia e psicoanalisi, la storia culturale dello specchio: dall’antico Egitto ai Maya in Messico, dal Giappone a Venezia, toccando il mondo del cinema, dell’arte contemporanea e, ovviamente anche della pratica dell’autorappresentazione. Una mostra davvero ricca, divertente ed emozionante, costata tre anni di lavoro e curata dal direttore Albert Lutz, che con questa grande messa in scena sulla «ricerca dell’io», si congeda dalla guida del museo.
Tra rivelazioni e inganni, le civiltà di tutto il mondo hanno inseguito il desiderio di rivedersi e riconoscersi, realizzando specchi di ogni tipo, ai quali venivano attribuiti significati e poteri diversi: la mostra appare come un avvincente viaggio dentro la magia dello specchiarsi, trasformando ogni visitatore in una sorta di Alice nel Paese delle Meraviglie. Così, da una sala all’altra, con curiosità si è portati ad «attraversare lo specchio» per entrare nella storia di questo oggetto che fa parte della nostra vita comune ma del quale non conosciamo i riferimenti storici e le tante evocazioni sociali e culturali. Scoprendo oltre 220 opere d’arte provenienti da 95 musei e da collezioni di tutto il mondo: specchi come sofisticati prodotti artigianali inventati dalla mano dell’uomo, ma anche raffigurazioni che rivelano come lo specchio abbia influenzato l’arte con tutto il suo potere simbolico.
È il caso del quadro (del 1870) di Jules Lefebvre dal titolo La Vérité: vi si vede una donna nuda, bellissima, che innalza uno specchio quasi contenesse la luce del sole. Lo specchio è raccontato come simbolo di virtù, peccato, saggezza e vanità: un autentico viaggio nel mondo delle meraviglie che ovviamente esplora anche i concetti più profondi dell’animo umano. Dalla coscienza di sé alla Vanitas, e poi la mistica, la magia e, non da ultimo, quello che appare sempre di più lo specchio del nostro tempo: l’esasperato uso della propria rappresentazione, per quei famosi 15 minuti celebrati da Andy Warhol.
Nel passato il concetto di conoscenza di sé era la base della sapienza. C’è da chiedersi: l’autorappresentazione è forse oggi la nuova pratica di questa ricerca dell’io? Certo, fin dall’antichità gli uomini sono stati invitati a contemplare il proprio volto. Socrate lo raccomandava ai giovani affinché, se erano brutti, potessero correggersi con la virtù e, se erano belli, conservare la loro perfezione guardandosi dal vizio. Bellezza e caducità, dunque, per coltivare la propria anima: non sappiamo se Chiara Ferragni ha letto Socrate (e non conosciamo i suoi vizi) ma sappiamo che di foto allo specchio ne ha fatte davvero tante e che sono seguite e apprezzate da oltre 16 milioni di follower.
Divisa per tematiche e aree culturali (arte antica, archeologia, antropologia, fotografia, cinema, arte contemporanea) la mostra ha un percorso lineare, dalle prime rappresentazioni con le opere simboliche che suggeriscono la Fortuna, la Prudenza o la Superbia (bellissimo un monogramma di Michelangelo Buonarroti), sino alle più recenti e intense opere di Anish Kapoor, Michelangelo Pistoletto, Gerard Richter, Roy Lichtenstein o William Kentridge. E se Rilke scriveva: «Specchi, quel che voi nell’essenza siete, non fu ancora scientemente descritto», la mostra presenta un percorso davvero ricco e inaspettato sulla storia mondiale dello specchio: da quelli in ossidiana (vetro vulcanico di colore nero) prodotti settemila anni fa e rinvenuti nelle tombe neolitiche di Catalhöyük, nell’Anatolia turca, considerati dagli archeologi i più antichi specchi del mondo, a quelli della Mesopotamia, dell’antico Egitto e della Cina che andarono diffondendosi dal terzo millennio avanti Cristo. Magia, credenze soprannaturali, dal mito di Narciso alla Medusa, dal potere della bellezza al peccato di Superbia: tutto si mescola, in un flusso di storie, raffigurazioni, oggetti carichi di energia e di storie bellissime, le evocazioni della mitologia lontana accanto ai linguaggi del nostro tempo.
Una sezione è dedicata alla fotografia, ma solo al femminile: venti artiste di quattro continenti dagli anni Venti del ’900 a oggi, Claude Cahun e Florence Henri, Amalia Ulman e Zanele Muholi, Cindy Sherman e Nan Goldin. Il loro è uno sguardo intimo e al tempo stesso intenso, sull’idea di autorappresentazione, la fotografia come occasione per esplorare un alter ego, un altro da sé, uno specchio tecnologico sulla vita quotidiana, tra racconto della realtà e vita privata. Non poteva certo mancare il cinema: tra i tanti spezzoni (Orson Welles, Wim Wenders, Wong Kar-Wai) quello che coinvolge di più è di Jean Cocteau, col suo Orphée, in cui, in una delle scene più famose della storia del cinema (che si riflette a sua volta nell’opera di Pistoletto) un giovane Jean Marais/Orfeo, accede agli Inferi. Proprio grazie a uno specchio.
Infine, quasi a voler rendere i visitatori dei veri peccatori, con un pizzico di sfida e di ironia il direttore Albert Lutz ha piazzato una specie di specchio magico (digitale) dove tutti possono apparire più giovani e belli: si appare più magri, con la pelle levigata, gli occhi grandi e la bocca carnosa. La Vanitas assume il nostro volto e con un colpo di rassicurante photoshop ci illudiamo di sconfiggere il tempo. Già, Vanitas vanitatum et omnia vanitas, «Vanità delle vanità, tutto è vanità», ma dura un attimo: lasciando il museo, lo specchietto retrovisore della macchina ci porta subito nella verità.