La Lettura, 7 luglio 2019
Intervista a Chuck Palahniuk
«Come le pellicce. I social media finiranno come le pellicce». Cosa c’entrano visoni ed ermellini nell’intervista a un grande provocatore della letteratura americana, un esploratore degli estremi come Chuck Palahniuk? Beh, lo spunto per una risposta da brivido il romanziere dell’Oregon di discendenza ucraina l’ha trovato in una domanda de «la Lettura». Partendo da una sua frase riferita all’esperienza letteraria, «la cultura si sviluppa nell’isolamento», gli avevamo chiesto se a suo avviso anche la gente, immersa nell’echo chamber di informazioni e comunicazioni continue e sovrapposte, di voci assordanti, sarà prima o poi tentata di tornare a un maggiore isolamento.
«Sì, molti si sfileranno – risponde Palahniuk, che oggi, domenica, è a Barolo per il festival Collisioni – ma questo avverrà sulla base dello status sociale di ognuno. Andy Warhol aveva torto. Diceva che in futuro tutti avrebbero avuto i loro 15 minuti di celebrità (un riferimento a un presunto effetto di democratizzazione di internet, ndr). Invece prima o poi tutti aspireranno a 15 minuti di privacy. La privacy, così come la possibilità di fare cose senza essere visti, diventeranno simboli del successo e la gente si disconnetterà dalla rete per imitare quelli che evitano di essere sempre esposti. Ricordo che qualche decennio fa un’azienda, proprio un’azienda italiana, creò un piano di pagamenti rateali per consentire anche ai poveri di comprarsi una pelliccia. Quando anche loro hanno conquistato questo status symbol, i ricchi hanno decretato che indossare queste pellicce era diventato deprecabile: nessuno le ha più volute e l’industria è fallita».
Quando scrive lei ricorre molto al sesso e alla violenza ma li presenta spesso in modo distaccato. È il suo modo di fare dell’ironia, sta testando la tenuta del pubblico, le reazioni agli stimoli estremi? O, come capita nel suo ultimo romanzo, «Adjustment Day», pubblicato qualche mese fa in Italia da Mondadori con il titolo «Il libro di Talbott», c’è il riflesso di un certo risentimento, se non addirittura disprezzo, per la generazione dei millennial, impalpabili come fiocchi di neve?
«Ogni volta che descrivo una scena drammatica nella quale i personaggi non reagiscono in modo socialmente appropriato alla tragedia che si sta verificando, questa disconnessione produce un effetto umoristico. Crei tensione nel racconto, poi, improvvisamente, la neghi. Il risultato: sollievo e risate. Secondo gli esperti è la conseguenza di un nostro antico riflesso animale. Lo stesso che ci fa apprezzare la scena di una tigre che sbrana un uomo. Purché non si tratti di noi».
Perché sceglie sempre storie estreme? Teme di essere noioso? Un modo per tenersi alla larga dal conformismo che, secondo lei, è il frutto di paura e ignoranza?
«Tendo agli estremi perché voglio raccontare storie che solo un libro può rendere al meglio. Cinema, musica e televisione devono rispettare certi standard di decenza per raggiungere vaste audience e recuperare gli ingenti investimenti fatti. I libri, invece, possono essere prodotti a basso costo, possono raggiungere solo chi li può capire e consumare. Ecco perché col libro si possono rischiare storie estreme. Quanto a paura e ignoranza, molti scrittori, e lettori, prediligono libri confortevoli, con un effetto sedativo. Io alla sedazione preferisco la sedizione. Spero che il gioco di parole sia comprensibile in italiano».
Lo è, ma a volte oltre a mettere in campo personaggi estremi – una bimba morta che torna dall’inferno a caccia dei suoi genitori o il consulente per aspiranti suicidi, lei deforma il linguaggio in un incrocio di sogni e incubi. Sta testando i lettori? Sono esperimenti?
«Ogni storia è un esperimento. Altrimenti sprechi il tempo del lettore. E anche il tuo».
I suoi romanzi sono esplosioni fantastiche, ma sono anche frutto di un lavoro di ricerca giornalistica che lei rivendica spesso come suo metodo abituale. I giornalisti, però, fanno una brutta fine ne «Il libro di Talbott». Se la meritano?
«Stia tranquillo: sono i giornalisti che dicono la verità quelli che vengono ammazzati. Ma se raccontano bugie popolari vivono a lungo e anche in condizioni piuttosto agiate».
Lei in genere evita riferimenti espliciti alla politica per non farsi condizionare dal dibattito del momento. Ma ne «Il libro di Talbott» l’eco dell’attuale radicalizzazione negli Usa è piuttosto forte. Ha fatto una scelta diversa perché pensa che Trump rappresenti un profondo cambio di paradigma della politica? Qualcosa che lacera il tessuto democratico e quello sociale?
«La letteratura un tempo aveva il potere al quale lei fa riferimento. Ora non ne ha più: è diventata il cagnolino della correttezza politica e di Oprah Winfrey. Non si sente più parlare di libri messi al bando perché oggi la gente accetta che venga messo il silenziatore agli autori. Così chi non riesce più a esprimersi con manifesti pubblici, può essere tentato di passare alle azioni violente. Che piaccia o no, la situazione non potrà che peggiorare finché non ce ne renderemo conto e imboccheremo un’altra strada. Nessuno ammetteva che fosse possibile, ma Trump è stato eletto. Negare la realtà non ci salva».
C’è molto tribalismo nella politica attuale come nei suoi romanzi, da «Fight Club» a «Il libro di Talbott». Cosa intende quando dice che il tribalismo è pericoloso, ma è un pericolo positivo? L’intolleranza per scuotere il mare piatto e noioso della correttezza?
«No, quando immagino aspetti positivi del tribalismo penso a un’unica cultura all’interno della quale si formano gruppi diversi che hanno modi diversi di spiegare il loro mondo. E di sopravvivere. Ad esempio il Burning Man, il festival che si svolge ogni estate nel deserto del Nevada, è molto tribale. I gruppi che danzano nudi e si drogano sono chiamati tribù. Coesistono pacificamente uno vicino all’altro in un luogo di divertente sperimentazione sociale».
Meglio il tribalismo rispetto al globalismo e al multiculturalismo?
«Rispondo ancora col Burning Man: vivono una vicino all’altra, ma ogni tribù ha il suo ethos, le sue regole di vita. Se venissero forzatamente omogeneizzate, la gioia delle loro performance andrebbe persa per sempre. Guardi internet: quelli che in pubblico si presentano come campioni della diversity, quando arrivano a Burning Man danno vita a tribù separate, strettamente controllate».
In passato lei ha a volte assecondato la critica che vedeva in alcune tragiche esperienze della sua vita – come l’assassinio del padre, ucciso, fatto a pezzi e bruciato dall’ex marito della sua compagna – la dolorosa ispirazione di opere come «Ninna Nanna». È ancora così.
«Ispirato dalla mia vita? Mi pare difficile. La mia vita è noiosa, non ne caverei fuori buone storie. Da ragazzino sognavo di fare il prete per poter ascoltare i segreti più oscuri di ognuno nel confessionale. Poi mi sono laureato in giornalismo avendo in mente lo stesso obiettivo. Oggi idee e ispirazioni mi vengono dalla gente che incontro e che mi confessa le sue storie».
C’è chi ha scritto che leggere un suo racconto è come guardarsi in uno specchio che riflette solo la parte negativa, il male di una persona, un po’ come nel ritratto di Dorian Gray. Vuole descrivere la «banalità del male»?
«Mi sa che ho qualche traduttore che travisa il mio lavoro. Male? io non descrivo mai il male, salvo quando serve per arrivare al bene e all’amore. A partire da Fight Club i miei libri descrivono personaggi impegnati in attività violente ma consensuali. Al massimo ci sono cattivi che vengono puniti. Per esempio il teenager campione di bullismo che viene sodomizzato. Ma, anche lì: alla fine il bullo è contento di aver perso il suo potere e si innamora di chi lo ha punito: dov’è il male?».
Come reagisce quando qualcuno descrive la sua letteratura come affascinante ma nichilista?
«Lo trovo un giudizio dettato dalla pigrizia. Quando vedi qualcosa che non ti piace, il modo più facile, pigro, di bocciarlo è bollarlo come nihilista. Scavate un po’ e scoprirete che io sono profondamente, impossibilmente, incurabilmente romantico. Credo nell’amore e nella creazione: sono le cose più difficili da esporre nel mondo di oggi».