La Lettura, 7 luglio 2019
Le alghe contro il riscaldamento globale
Il termine «alga» fa riferimento a un’enorme varietà di organismi, che spaziano dai cianobatteri (detti impropriamente alghe verdi-azzurre, o cianoficee) alle microalghe (che si presentano in un arcobaleno di colori e in più di 50 mila specie), alle alghe comunemente intese, che possono raggiungere le dimensioni di una sequoia gigante. Le alghe non costituiscono uno specifico gruppo tassonomico, come i cani o i funghi, non hanno un antenato comune, né possono essere definite come organismi fotosintetici, avendo perduto questa capacità. E proprio la differenziazione e l’adattabilità le hanno rese (misconosciute) protagoniste dell’evoluzione, richiamando l’attenzione degli studiosi e dei divulgatori più attenti come Ruth Kassinger, autrice del saggio Slime ( Houghton Mifflin Harcourt, 2019).
Le microalghe, in particolare, sembrano offrire la soluzione migliore per la produzione di biocombustibile, e per la riduzione dei gas serra. La loro capacità di convertire l’anidride carbonica in lipidi ricchi di carbonio, molto simili al biodiesel, è molto superiore a quella delle colture oleaginose, senza neppure bisogno di prezioso terreno agricolo.
In luogo poi dello sfruttamento di alghe planctoniche cresciute in soluzioni acquose dentro bioreattori verticali – metodo diffuso fino a pochi anni fa ma rivelatosi economicamente controproducente – si preferisce ora ricorrere ad alghe cresciute su superfici biocompatibili neutre, in grado di catturare CO2 sia allo stato gassoso sia a quello liquido, con significativo incremento dell’efficienza degli impianti e drastica riduzione dell’acqua necessaria per il processo.