Il Sole 24 Ore, 7 luglio 2019
Nell’armadio di Dora Maar
Ai fantasmi si erano abituati entrambi, una donna e un ragazzino. Lei aveva perduto l’orco di cui si era innamorata, lui il padre, lei era Dora Maar, il mostro Pablo Picasso, il ragazzino Jérôme de Staël, figlio di Nicolas. Nelle spirali di una famiglia confusamente allargata, viventi e spettri si sono incontrati in un’antica dimora a Ménerbes, in Provenza, dove ha vissuto a lungo Dora Maar, fotografa, pittrice, musa amata e ripudiata. Quando anche Dora scompare nel 1997, a ottantanove anni, Jérôme, che di anni ne ha quarantanove e ha viaggiato a lungo in Perù ed è diventato fotografo ed ebanista, torna nei luoghi della sua infanzia e ritrae quella dimora incantata, quelle poche stanze dove l’artista amica si era rifugiata come in una conchiglia, quel disordine di oggetti e di ricordi, i vestiti bianchi nel guardaroba, i tubetti di colore nell’atelier, i pennelli ancora sul tavolo ricoperto di giornali, e poi l’immensa croce appesa al muro e sotto un’altra croce, un telaio di legno ancora senza tela, e Jérôme giura di non aver spostato alcun oggetto: il dialogo tra religione e pittura, tra fede cieca e sguardo luminoso, è autentico. Questa miracolosa raccolta di fotografie, pubblicata in un libriccino prezioso, Sans Picasso, a cura di Stéphan Lévy-Kuentz, con postfazione di Anne de Staël, poetessa e sorella di Jérôme, ritorna oggi a narrare la vita più segreta e segregata di Dora Maar, a cui il Centre Pompidou dedica un’immensa retrospettiva fino al 29 luglio, poi alla Tate Modern di Londra dal 20 novembre al 15 marzo 2020. Ma nonostante le oltre cinquecento opere in mostra, è a questa ventina di immagini in bianco e nero che si torna volentieri per cercare di “abitare” la memoria di una delle donne più originali e oscure del Novecento.
A Ménerbes, nel Luberon, Dora giunge alla fine della guerra. Quel palazzo settecentesco, che domina il villaggio e i vigneti, quelle stanze nelle quali si aggirano indisturbati gli scorpioni, è l’ultimo regalo che le offre Picasso nel 1944. L’ultimo domicilio, il più lontano da Parigi, per liberarsi di un’amante non più tale, che per giunta ha il cattivo gusto di risorgere da un esaurimento nervoso e dall’elettrochoc. A visitare la casa, la prima volta, Dora e Pablo arrivano insieme. Hanno dovuto aspettare la Liberazione e una tanica fortuita di benzina. A bordo di una Hispano-Suiza percorrono strade polverose, fino a quando giungono ai piedi di un palazzo di pietra, massiccio, a due piani. Le imposte, quelle celebri imposte grigie che gli abitanti imparano a spiare per seguire i movimenti della padrona di casa, sono chiuse. All’interno, solo quattro delle quindici camere sono abitabili. Il resto è fatiscente. A ogni temporale la casa è invasa dall’acqua che scorre a torrenti lungo le scale interne, prosegue sotto il portone, scivola lungo i gradini dell’ingresso, da lì si perde tra i ciottoli di una stradina e appena torna il bel tempo risale lungo i muri e fiorisce di verde e di azzurro. Pochi giorni e Picasso torna a Parigi. Si ripresenterà un anno dopo e a Dora chiederà le chiavi di casa per trascorrere una breve vacanza con Françoise Gilot, la sua nuova compagna. Per saldare il conto lascerà alcuni disegni della camera nella quale ha dormito e amato. Avrà anche la delicatezza di ridipingere l’asse del water, verde a piccoli fiori, e di quel cimelio «degno della piscia del Papa», dirà Pablo, Dora riuscirà a liberarsi perché «c’è un limite all’idolatria», parole sue.
Una delle fotografie di Jérôme ritrae le mura del palazzo, arroventate dal sole, e il giardino, una piccola giungla che si ritrae solo davanti a un tavolo di pietra, quasi un dolmen, circondato da quattro sedili. Su uno di questi nel 1947 siede Jacqueline Lamba, non più bionda, come la voleva l’altro Minotauro del Surrealismo, André Breton, ma di nuovo castana. L’armonia dura poco perché le due signore litigheranno furiosamente e non si parleranno mai più, nonostante Jacqueline andrà ad abitare a pochi chilometri da Ménerbes, a Simiane. Altri vicini di casa vengono a trovare Dora e a interrompere le ore dedicate alla pittura e alla preghiera. Appare Douglas Cooper, storico dell’arte, collezionista e proprietario del Château de Castille, a pochi minuti di macchina lungo la famosa strada di Uzès. Segue Nicolas de Staël, che nel 1953, due anni prima di morire suicida, acquista il castello di Castelet, all’altro capo di Ménerbes, e poco importa se Dora aveva sperato che fosse Balthus l’acquirente. Françoise, la seconda moglie di Nicolas, è un’amica affettuosa e insieme a Thérèse Mayer, vicina di casa, giocano a bocce, mentre i bambini corrono tra gli alberi. Altre volte Dora guida il motorino, che Jérôme ha ritrovato nel sottoscala, percorre la campagna, ritorna nel suo atelier al secondo piano e dipinge, pittura astratta, dopo averla tanto odiata.
Nel 1973 Anne de Staël, che da ragazza aveva mostrato a Dora le sue poesie e nel diario aveva scritto di volere diventare un giorno come lei, viene a salutarla in compagnia di André du Bouchet, suo compagno, anche lui poeta e per la raccolta Sol de la montagne Dora realizza una serie di bellissime acqueforti. Si parla ancora una volta dei vecchi amici, poi qualcosa interrompe il discorso, la morte di Picasso, e l’artista si esilia, questa volta da sola, nella casa di Parigi, al 6 di rue Savoie. Le imposte della dimora di Ménerbes rimangono chiuse fino a quando Jérôme decide di riaprirle, un giorno all’alba, per l’ultima volta. Nel guardaroba c’è ancora un filo di perle, ma è una luce troppo tenue perché possa resistere al corso degli eventi. Nancy Negley, miliardaria texana, ha già fatto la sua offerta, la casa sarà sua e la trasformerà nella Brown Foundation, a sostegno di nuovi artisti. Ma forse i fantasmi, conservatori per natura, rimpiangono la muffa di un tempo.