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 2019  luglio 07 Domenica calendario

La lingua segreta dei prigionieri italiani

Tra le sofferenze della guerra, la fame è quella che – forse – si dimentica più presto in tempo di pace, ma che morde con maggiore insistenza nei campi di prigionia. Oltre centomila furono i soldati italiani detenuti nei Lager austro-ungarici durante l’immane tragedia della prima guerra mondiale, e uno dei problemi quotidiani più pressanti di quegli uomini (perlopiù incolti, e per nulla abituati a comunicare per iscritto) consisteva nel cercare di far presente nelle lettere rivolte ai familiari il loro estremo bisogno di pacchi di cibo, dissimulando il messaggio per non incappare nella censura, visto che la manifestazione esplicita del bisogno era apertamente vietata dagli Austriaci, che temevano le conseguenze di violazioni del diritto internazionale sulla prigionia. Risultato: tutti i riferimenti alla fame riconosciuti dalla censura venivano cancellati, o comportavano il blocco delle lettere.
A comandare una delle cinque unità preposte al controllo dei messaggi dei prigionieri italiani, l’esercito austriaco pose il giovane filologo romanzo Leo Spitzer, di buona famiglia ebraica viennese, profondo conoscitore dell’italiano e del francese e delle rispettive letterature, che sarebbe divenuto il fondatore di una intera branca della critica letteraria, la stilistica, dedita allo studio della capacità individuale – propria appunto dello stile – di piegare la risorsa sociale e collettiva della lingua a fini di espressione artistica. Grato per un incarico che lo teneva lontano dal fronte, e compreso di un profondo patriottismo, Spitzer si applica al compito con estremo rigore.
Le lettere dei prigionieri di guerra, materiale in apparenza remoto dagli interessi di un fine studioso di letterature romanze, divengono anzi per Spitzer il campo di uno dei più geniali esperimenti della filologia moderna, dando spunto a due opere capitali, che egli pubblicò in tedesco dopo la guerra, e che sono state ripubblicate in italiano dal Saggiatore. La prima, notissima, era già stata tradotta nel secolo scorso ed è stata riedita a cura di Lorenzo Renzi nel 2016: è la raccolta di testi con cui Spitzer fonda lo studio della cosiddetta scrittura semicolta, cioè la produzione di chi scrive per pure necessità di comunicazione ma con una capacità solo elementare di redigere un testo, dando luogo a una fenomenologia a volte teratologica, ma di estremo interesse. La seconda è appena uscita in traduzione italiana: meno noto ma non meno suggestivo delle Lettere, è un libro in cui Spitzer commentò, classificandoli in venti tipi fondamentali, gli espedienti messi in atto dai prigionieri per parlare della fame senza menzionarla esplicitamente, cercando di venir compresi solo dai familiari, ed eludendo il controllo della censura. Era un gioco spietato, a cui i soldati italiani si prestavano con un misto d’ironia, d’inventiva, di azzardo e di ingenuità che fanno delle loro lettere un paradossale monumento dell’ingegno umano e delle potenzialità della lingua.
La fame, dunque, non si può nominare; ma si può cercar di evocarla alludendo alle figure della cultura popolare che la richiamano a corrispondenti spesso ignari e comunque non preparati a ricevere messaggi enigmatici. Così, se la vigilia del giorno di Santa Lucia è un giorno di digiuno, un prigioniero tenta di spiegare che «qui ogni giorno è S. Lucia ed ogni giorno si festeggia con vigilia, ti basta questo»; e un altro gli fa eco osservando: «Quà da tanti giorni mi fà l’impressione di essere a Palermo per S. Lucia: ma almeno da voi la festa si fa per ottenere qualche grazia, come la vista degli occhi od altro; noi invece non le domandiamo altro che la grazia di farci arrivare i pacchi da ogni parte».
Nella speranza che i censori non conoscano nelle pieghe la cultura dialettale, la fame viene personificata ingegnosamente in un’enigmatica signora Anna o in una signora Nina («ma capirete che qui la siora nina spassiza per i camerini», scrive un prigioniero veneziano, insospettendo il censore visto che nessuna signora passeggiava per gli improbabili “camerini” del Lager). Nel ribollìo degli eufemismi, la miseria è spesso indicata come «la cattolica» (per influsso del tipo accattare, il verbo degli accattoni), e la fame diventa a sua volta cattolica, ma anche – con procedimenti tipici dei gerghi – la bucolica o la maiolica («patesco solo un po’ di sgaggia bucolica», scrive un prigioniero che certo non sta pensando a Virgilio).
La fame non si nomina, ma si può tentar di evocarla fingendo di parlare di musica (dal troppo esplicito «le budelle le canta dalla sera alla mattina» al più smaliziato «Musica? Non me ne parlare; qui c’è altro che musica. Fa passare le Litanie dei Santi e quasi alla fine troverai»: forse un’allusione al salmo spesso recitato in chiusa alle litanie, in cui si parla appunto di estenuazione nel digiuno). Oppure: «Tengo ottima salute però si fischia molto e siamo contenti». O ancora: «Prego spedirmi della musica che si son rimasta nella mia cassetta; e comprarmi un litro di solfeggio che si chiama il Bana» (probabilmente un commerciante di vini, scrive Spitzer: forse, ma camuffato da quel libro di solfeggio che si chiama effettivamente Bona: un eccesso di zelo del censore?). L’enigma può anche celarsi dietro una bizzarra immagine geografica, che rimbalza in lettere di prigionieri di varia origine: «In Austria regna la Francia voi mi capite»; «la francia iè insopportabile» (fame o freddo?). Un riferimento letterario diviene a un certo punto di uso comune tra tutti i prigionieri, perlopiù digiuni di letture dantesche (anzi, digiuni di tutto): è il richiamo al conte Ugolino, che può diventare anche un compagno di cella di nome Ugolini, la cui frequente menzione fatalmente insospettisce i censori, al pari dei troppo frequenti saluti rivolti a uno zio Magno che è un evidente congiunto… lessicale di magnare. Scrive Spitzer: «tra i 100.000 prigionieri di guerra italiani in Austria-Ungheria, non siamo mai riusciti a individuare colui che ha trasformato la citazione di Ugolino in una comunicazione sulla fame – e se anche l’avessimo individuato, non avremmo mai potuto scindere il suo apporto creativo da quello della tradizione letteraria che viveva in lui: e un muoio di Ugolino sarà allora una creazione o un lento slittamento di significato?». Non senza stupore, Spitzer ritrova nelle perifrasi metaforiche elaborate da contadini semianalfabeti procedimenti del tutto simili a quelli della più alta letteratura, e ne conclude: «I nostri mezzi espressivi sono limitati, illimitata è tuttavia la possibilità di esprimere la nostra personalità attraverso i pochi tipi di base». Non c’è molta differenza, osserva Spitzer, tra ignoranti e persone dotte. E persino un povero fante può cimentarsi, spinto dal bisogno, in una fiammeggiante enumerazione caotica del tipo di quelle che piacevano al critico: «Non so in che modo devo scrivere per farvi capire a voi tutti – ogni volta che mi scrivete mi dite cosa mi fabisogno. E sedici mesi e undici giorni che sono quì è sono sedici mesi e undici giorni che vi scrivo di continuo che si vede la volpe, che si sofre la spazzola che fanno vedere la sgaiusa che la salute è buona è lapetito ciè sempre, che ciò qui mio compagno Ugolini non vole mai bandonarmi, non so in che modo a farla intendere quando viò detto queste cose mi pare che no fa più bisogno di domandarmi quello che abbisogna». L’ufficiale censore e linguista annota: «La dimostrazione di quanta “arte”, calcolo, astuzia ci sia in questi scritti primitivi, prodotti – in gran parte! – da contadini, è certamente preziosa e consente di ovviare alla sottovalutazione delle scritture popolari; dagli esordi della dialettologia i linguisti, più degli studiosi di letteratura, tengono il “popolo” in gran conto». Nell’orrore della guerra s’intravvede persino il barlume di una risata: «il lettore – osserva Spitzer – avrà colto questa componente tragicomica delle lamentele per la fame dei prigioneri, trovandosi spesso in dubbio se ridere o inorridire».