Il Sole 24 Ore, 7 luglio 2019
Il costo dei rifiuti nelle grandi città
I rifiuti che occupano le strade e le piazze di Roma non si limitano a riempire le pagine dei giornali e le memorie digitali dei turisti che riportano a casa in fotografia l’imprevisto souvenir della monnezza capitolina. L’emergenza perenne regala al Campidoglio anche il primato dei costi di gestione del servizio di igiene urbana: servizio che non funziona, ma che in fatto di spese non conosce rivali nelle grandi città italiane. «Chi inquina paga», recita un principio europeo che la normativa italiana sulle tariffe rifiuti prova da anni ad attuare senza riuscirci. Ma l’obiettivo non era quello di moltiplicare i costi dove le città sono più sporche, come invece avviene puntualmente da noi.
I numeri sono chiari. Smaltire, o meglio provare a gestire con scarso successo una tonnellata di rifiuti urbani di Roma costa 473 euro. La stessa impresa a Milano, con risultati decisamente diversi, presenta un conto da 433 euro, il 9% in meno. Ma girando per l’Italia si incontrano cifre molto più leggere: Firenze e Bologna se la cavano con poco più di 350 euro a tonnellata, con uno sconto del 25% abbondante rispetto al carissimo rifiuto capitolino, e la classifica delle città scende fino ai 306 euro di Verona, primatista del risparmio fra i Comuni con più di 250mila abitanti. Solo Venezia, con i suoi 558 euro a tonnellata, supera la Capitale. Ma Venezia è ovviamente fuori gara. Gestire i rifiuti urbani fra i calli della Laguna ha ovviamente un costo diverso rispetto alle normali città di terraferma, e soprattutto a moltiplicare l’intensità e lo stress del servizio è una presenza turistica che non ha eguali: 10,5 milioni di presenze annue in una città che conta 264mila residenti creano una situazione che non permette paragoni. Nemmeno con Roma: dove i turisti sono più del doppio, con circa 25 milioni all’anno, ma gli abitanti sono 2,6 milioni, cioè 10 volte i veneziani.
La fotografia è nitida, ed emerge dai grafici dell’«Efficientometro», il nuovo portale realizzato per Ancitel dall’Osservatorio permanente sulle amministrazioni pubbliche per mettere a confronto le perfomance dei Comuni sui temi più strategici dell’amministrazione locale. Nel capitolo dell’igiene urbana il sistema raccoglie i dati di Ispra sulla produzione di rifiuti e quelli dei bilanci locali sulla spesa. E offre così gli strumenti di base per provare a indagare le cause del fenomeno.
L’assessore all’ambiente del Comune di Roma, quando arriverà chiudendo la lunga fase di vacatio seguita alle dimissioni di Pinuccia Montanari dopo quelle di Paola Muraro, dovrà affrontarne parecchie criticità. La prima, evidente, è quella degli impianti. Perché quando il ciclo non si chiude partono le lunghe trattative per esportare i rifiuti in altre province e regioni, che spesso resistono e alzano il prezzo per lo scomodo ruolo di “pattumiere di Roma”.
Sul punto il conflitto fra il Comune a guida Cinque Stelle e la Regione amministrata dal segretario del Pd Nicola Zingaretti è continuo. Ma come spesso accade a Roma, il problema è storico e attraversa le maggioranze politiche. Chiusa nell’ottobre del 2013 Malagrotta, che con i suoi 230 ettari rappresentava il primato continentale in fatto di discariche, le traversie della giunta Marino non hanno permesso di avviare un piano alternativo. Il commissariamento del Campidoglio non ha portato svolte sul tema, dopo di che le parole d’ordine a Cinque Stelle sulla città «a rifiuti zero» si sono per ora tradotte solo in una città «a impianti zero». Perché a mancare non è solo un inceneritore, ipotesi al centro di infinite battaglie ideologiche che in ogni caso non offrirebbe soluzioni a breve all’emergenza romana. A saltare sono state anche le piccole strutture intermedie schiacciate dal super-lavoro e da incendi di cui spesso si indaga l’origine dolosa.
Ma non è solo questione di impianti. Il prezzo pagato dalle città per i rifiuti urbani dipendono dal contratto di servizio con le aziende che gestiscono il servizio. A Roma c’è l’Ama, al centro di una battaglia infinita con il Comune che finora ha impedito la chiusura del bilancio 2017. Anche in questo caso il problema è antico, e la girandola di amministratori che ha caratterizzato gli ultimi tre anni non ha aiutato finora ad affrontarlo.
A chiudere il cerchio interviene la tariffa pagata da cittadini e imprese. Che deve garantire la «copertura integrale del costo del servizio», per evitare di caricare le inefficenze sulla fiscalità generale. Ma non esistono indicatori condivisi per misurare i «costi standard», per cui gli oneri di troppo si scaricano direttamente in bolletta. Non solo: tra i costi da coprire ci sono i mancati incassi causati dall’evasione, che si scaricano quindi sulle bollette di chi paga. Nel consuntivo 2018 il Campidoglio ha messo a bilancio entrate per 808 milioni, che fanno 310 euro ad abitante (nel conto entrano ovviamente anche le imprese), ma gli incassi si sono fermati a 338 milioni, sotto al 42%. A Milano l’entrata accertata vale 302 milioni (232 euro pro capite), e in cassa ne sono arrivati 266, cioè l’88 per cento.