Corriere della Sera, 7 luglio 2019
Biografia di Thomas Fabbiano
Nella vita di un tennista ci sono tante partite della vita perdute. È il 26 marzo del 2016. I challenger sono il purgatorio del tennis, abitato da vecchi mestieranti a caccia degli ultimi spiccioli, giovani promesse, giocatori in crisi. E quello di Shenzen, nella Silicon valley cinese, non è proprio dietro l’angolo. Andata e ritorno in aereo costano quanto il montepremi dei quarti di finale. Poco distante dal circolo scorre il Maozhou, uno dei fiumi più inquinati del pianeta. Si gioca sul cemento, a quaranta gradi.
Thomas Fabbiano è al terzo torneo cinese in tre settimane. Le luci del tennis sono puntate sui primi due Master 1000 della stagione, Indian Wells e Miami. Quell’aria ai piani alti lui l’ha respirata solo da ragazzo, quando era una grande speranza, per poi finire nel seminterrato del tennis. Oggi gioca per risalire. Se vince, entra per la prima volta nei primi cento del mondo, a 27 anni. A quell’età gente che lui batteva da ragazzo ha già vinto degli Slam. Quota cento non è un simbolo, è la sopravvivenza. Chi è dentro guadagna abbastanza da potersi permettere un minimo di programmazione, chi è fuori è obbligato al dubbio se continuare o meno, a viaggi complicati, a una bilancia commerciale sempre in negativo.
Sta giocando contro Di Wu, oggi numero 347 del mondo, praticamente disperso. Vince 5-0 al terzo set. Sul primo match point, l’avversario stecca una risposta di rovescio, che prende la riga. Sul secondo, spara un dritto a caso. Dentro. Si spegne la luce all’improvviso. Come se il peso di tutta la fatica, i viaggi e le amarezze gli fossero caduti di colpo sulle spalle. Perde 7-6 al tie-break. Basta, sei esausto, riposati, gli dice il suo allenatore. Thomas invece smanetta con il telefonino, e chiede una iscrizione all’ultimo momento per un altro torneo. Vola da Shenzen a Fiumicino cambiando tre aerei e poi subito a Tel Aviv, senza passare da casa, per salire sul treno e arrivare in tempo a Ra’anana, dove passa quattro turni e diventa numero 98 del mondo.
Nella foto a corredo di questo articolo ci sarà inevitabilmente la stretta di mano con Ivo Karlovic alla fine del secondo turno di Wimbledon. Le guide dell’Atp assegnano a Fabbiano 172 centimetri di statura, invero molto generosi, mentre la vetta del quasi quarantenne croato è data a 211 centimetri. Davide che batte Golia, il piccolino contro il gigante, et voilà il piatto è servito. Già due giorni prima, quando aveva fatto l’impresa, eliminando l’astro nascente Stefanos Tsitsipas, e anche venerdì, quando ha chiuso il suo bel Wimbledon perdendo bene da quell’armadio di Verdasco, il contrasto fisico era stridente. Ma la storia di Thomas Fabbiano, tennista fiorito a trent’anni, quando molti suoi colleghi invece appassiscono, va ben oltre la differenza di altezza con gli avversari.
«Trevisan, Lopez, Fabbiano». Al Roland Garros del 2007 il mantra degli appassionati italiani era questo. Dopo anni di magra, tre grandi speranze italiane ai nastri di partenza del torneo juniores. La testa di serie numero 1 era proprio Matteo Trevisan. Aveva tutto. Non ha raccolto nulla, tradito dal fisico. Daniel Lopez non ha neppure cominciato, le ultime notizie lo davano maestro di educazione fisica in Paraguay. Con Fabbiano i tecnici mettevano le mani avanti. Bravo eh, gioca bene, ha un dritto fulminante, ma con quel fisichino chi può mai dire. Divenne il paziente zero della federazione che lasciava presto i suoi giocatori al loro destino, se ancora non ce l’avevano fatta. A 21 anni e al numero 381 del mondo, si trovò solo con la sua famiglia, a decidere che fare. Bruciato, e abbandonato. Il tennis di oggi appartiene ai super uomini, non è più l’epoca dei piccoli maestri come Ken Rosewall o Rod Laver. Il figlio del sindaco di San Giorgio, in provincia di Taranto, decise di provarci comunque. Ci voleva tempo, e una forza di volontà infinita. Cominciò la sua personale Odissea tra challenger in Oriente che stanno al tennis come i peggiori bar di Caracas al rhum. Nel 2017 salì al numero 70, la sua migliore classifica di sempre. Giocò nei grandi tornei, scese, risalì tornando senza problemi nelle periferie sportive di Busan, Tunisi, Surbiton, Liuzhou. E capiterà ancora.
A Fabbiano manca il più importante dei santi nel paradiso tennistico, San Servizio. Quando sono in difficoltà, i Federer, i Tsitsipas, i Nadal, tirano una prima e fanno i buchi per terra. Lui deve sudarsi ogni punto, non esistono scorciatoie. Il suo tennis richiede concentrazione perenne, nulla è mai garantito. La consapevolezza di essere arrivato tardi, e la buona educazione, gli hanno dato un portamento classico, quello che non piace agli apologeti di Nick Kyrgios o di altri talenti viziati. Thomas invece sa quanta sofferenza ci vuole, sa quanto il successo può essere volatile, ha già fatto il giro completo. È un ragazzo gentile e disponibile, che risponde in chat alle ore più improbabili, dall’altro capo del mondo. Dopo essersi rimesso a nuovo all’accademia di Foligno, specializzata in salvataggi sportivi, adesso lavora a Bordighera con Riccardo Piatti, il gran meccanico del tennis mondiale, che racconta come spesso debba pregarlo di smettere, fosse per lui starebbe in campo anche di notte. Credere in se stesso, non mollare mai, spremere ogni stilla di energia da quei 172 centimetri per inseguire il proprio sogno. La vera storia di Thomas Fabbiano, non campione ma giocatore vero, è questa. Altro che Davide e Golia.