Corriere della Sera, 7 luglio 2019
Sergio Romano racconta i suoi 90 anni
Sergio Romano, qual è il suo primo ricordo privato?
«Sono a Pegli, recito La Nave di D’Annunzio vestito da marinaretto. E al pensiero non so se oggi prevalga il sorriso o la nostalgia».
E il primo ricordo pubblico? Rammenta il Duce che proclama l’impero?
«Certo. Non avevo ancora sette anni, ma si percepiva nell’aria una generale soddisfazione, un certo orgoglio».
E la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940?
«Non fu accolta con entusiasmo. Gli italiani la guerra non la volevano. Il 1939 era stato un anno di popolarità per Mussolini, attestato anche dai rapporti dei prefetti che in altre occasioni avevano registrato il malcontento popolare: gli italiani erano grati al Duce che li aveva tenuti lontani dalla guerra».
Cominciarono subito i bombardamenti.
«Il 14 giugno Genova fu colpita dal mare. Io cercai scampo nel rifugio della clinica dove mia madre era stata operata per un cancro al seno. Morì meno di due anni dopo. Scoprii dalla lapide che era nata nel 1906. Per civetteria diceva di essere del 1909».
Come la ricorda?
«Ricordo l’ultimo incontro… ma preferisco non parlarne. Benché Tolstoj dica esattamente il contrario, tutte le infelicità si assomigliano. I dolori, gli amori: viste sotto questo profilo, le vite degli uomini si assomigliano».
Il Duce lo vide mai?
«Una volta sola, a Milano, di ritorno dall’ultimo discorso, al Lirico. Salutava la folla dall’auto. E la folla gli rispondeva. Più per abitudine che per affetto. Anche perché c’era il rischio, in caso contrario, di essere apostrofati con durezza dalle brigate nere».
Però non vide piazzale Loreto.
«Mi rifiutai di assistere a quella che Valiani definì macelleria messicana».
E ha scritto di non capire cosa ci fosse da festeggiare all’arrivo degli americani. Non era lecito festeggiare la fine dell’occupazione nazista?
«Sì. Ma gli americani e i soldati delle varie nazionalità non erano nostri alleati. Erano occupanti. Ci ricordavano che avevamo perso la guerra. Avevano tutti i diritti; ma non quello di pretendere la mia cordialità. Un fondo nazionalista mi era rimasto. In parte era un retaggio veneto».
Nazionalisti i veneti?
«Lo erano molto. Avevano vissuto la Grande Guerra».
Lei ha scritto di un drammatico incontro nei giorni di Caporetto tra suo nonno, ufficiale al fronte, e suo padre, giovane convittore che aveva l’incarico di portare i compagni più piccoli a Bologna.
«La famiglia di mio padre era friulana, mia nonna ricordava con un pizzico di orgoglio di avere visto D’Annunzio in uniforme nella piazza di Latisana. Ma anche mia madre, che era di Vicenza, aveva vissuto la guerra: se gli austriaci avessero sfondato sull’altopiano di Asiago, il giorno dopo sarebbero stati in città».
Come ricordavano Caporetto?
«Nessuna sconfitta è stata sviscerata e quasi celebrata con altrettanto compiacimento».
Come lo spiega?
«Il fascismo si impadronì della vittoria, e la mise in scena in forme spesso rozze e retoriche. Questo aiuta a capire la rimozione successiva».
Nel 1946 lei è a Milano. Al concerto per la riapertura della Scala. Che impressione le fece Toscanini?
«Anche dall’ultima fila del loggione si percepiva il suo carisma. Ma l’impressione più grande me la lasciarono i milanesi. Pronti a far ripartire l’economia, a rilanciare le arti. Andai alla prima del Piccolo: amavo il teatro, ho anche scritto tre atti unici… Davano “L’albergo dei poveri” di Gor’kij. Quarant’anni dopo rividi la stessa pièce a Mosca: in una versione modernizzata che non mi convinse; e poi, in un altro teatro, in una versione basata sulle note di lavoro del primo regista, Konstantin Stanislavskij. Era uguale a quella del Piccolo. Strehler aveva studiato gli appunti di Stanislavskij con una attenzione filologica».
Al referendum del 1946, se avesse già avuto ventun anni, avrebbe votato monarchia o Repubblica?
«Ho votato Repubblica, grazie a mia nonna. Lei era del 1883, come Mussolini: al tempo era quindi considerata molto anziana. Considerò che le conseguenze di quella scelta storica avrebbero riguardato più la mia vita della sua. E mi disse che avrebbe votato seguendo le mie indicazioni. Anche mio padre votò Repubblica. La seconda moglie di mio padre, monarchia».
Che cosa motivò la sua scelta?
«Mi rendo conto solo oggi che forse influì su di me anche la propaganda anti-monarchica della Repubblica sociale, che rinfacciava al re il suo voltafaccia. Una propaganda aggressiva, in cui però c’era del vero».
Nel 1948 lei era a Parigi. Paolo Conte, destinato a diventare una star in Francia, mi ha raccontato di aver trovato da ragazzo un forte sentimento anti-italiano, tipo nero in un quartiere bianco dell’Alabama.
«Io ebbi l’impressione contraria. L’occupazione italiana era stata molto diversa da quella tedesca. Nella nostra zona l’esercito aveva protetto gli ebrei, e questo i francesi lo sapevano. Inoltre non erano particolarmente orgogliosi di come si erano comportati tra il 1939 e il 1944. Si nascondevano con ipocrita eleganza che molti di loro avevano collaborato con i nazisti».
Poi prese il treno per Londra. Come la ricorda?
«Nella capitale vincitrice il clima duro del dopoguerra si sentiva molto di più. Appena arrivato avevo fame e chiesi due uova al piatto: mi guardarono sorridendo. Le uova erano razionate, come il pane e la stoffa per i vestiti. Il governo socialista di Clement Attlee voleva pianificare tutto, compresi i pasti al ristorante: c’erano solo tre menu in tutta l’Inghilterra, e anche nel locale più esclusivo nessun conto poteva superare i cinque scellini».
Com’era l’atteggiamento verso gli stranieri?
«La polizia arrivò alle 4 del mattino per vedere se avevo i permessi in ordine. Cominciava la prima immigrazione. E gli inglesi non la volevano».
Poi lei andò a Berlino, la capitale distrutta e occupata.
«Era il 1951. Mi colpirono le cataste di pietre e mattoni, ognuna con un numero: la ricostruzione era già cominciata. Ripartiva anche la vita notturna, la gente era allegra. Ero invitato al festival cinematografico di Berlino Ovest, ma volli visitare gli studi di Babelsberg a Est, dove Fritz Lang aveva girato Metropolis e Marlene Dietrich era stata l’angelo azzurro. Gli organizzatori mi rimproverarono: ero stato a trovare i loro nemici. Con me c’era Curzio Malaparte, che non se l’era sentita di seguirmi dall’altra parte del confine».
Come mai? Com’era Malaparte?
«Convinto di essere molto importante. Vedeva nemici personali dappertutto, e temeva di correre a Berlino Est chissà quale pericolo. Si chiamava in realtà Kurt Erich Suckert ma non parlava tedesco. Gli facevo un po’ da interprete».
Nel 1952 lei andò in America.
«Passai da Long Island a trovare la sorella di mia madre, con cui avevamo perso i contatti da anni. Più tardi andò a visitarla anche mio padre, che provò a parlarle in veneto. Rispose in un misto di dialetto, italiano e inglese con accento americano».
Fu l’anno dell’elezione di Eisenhower.
«Studiavo all’università di Chicago. Nel voto precedente c’erano stati brogli – già funzionava la Chicago-machine che nel 1960 fu decisiva per la vittoria di Kennedy —, e alcuni studenti stranieri furono mandati come scrutatori nei seggi. Il mio era una casa privata, nel quartiere dei neri. Furono gentilissimi. Insistettero perché mangiassi il loro pollo fritto, retaggio delle radici del Sud».
Anni dopo, quando lei lavorava al Quirinale, fu l’interprete di Saragat nei colloqui con i presidenti americani. Il primo fu Lyndon Johnson.
«Molto cordiale, alla mano. Non era particolarmente brillante, ma aveva un controllo assoluto del partito e del Congresso. Quando Saragat espresse il dissenso italiano sulla guerra in Vietnam, lo guardò senza muovere un muscolo. Entrambi del resto non vedevano l’ora di parlare d’altro».
Il secondo fu Nixon.
«Uomo molto simpatico, alquanto diverso da come veniva descritto. Nixon aveva tutta la stampa contro, e anche a noi non piaceva: eravamo abituati ai Wilson e ai Roosevelt, a presidenti di statura internazionale; Nixon ci sembrava un politico minore, quasi locale. In realtà, ebbe intuizioni importanti. Era anche spiritoso».
Incontrò anche Bob Kennedy?
«Non facemmo in tempo. Ero presente però all’incontro di Saragat con Christian Barnard: grande cardiochirurgo, grande playboy».
Lei arrivò all’ambasciata italiana a Parigi in un momento cruciale: Maggio ’68.
«All’inizio guardai la rivolta con gli occhi del conservatore. Poi passai una notte nel Quartiere latino,con mia moglie, e cominciai a guardarli con simpatia. Era una ribellione che sarebbe piaciuta a D’Annunzio».
Come ricorda De Gaulle?
«Un gentiluomo. Studiava i curricula dei suoi interlocutori, sapeva tutto di noi. Mi chiese perché avevo fatto il diplomatico e cosa mi sarebbe piaciuto fare».
Lei cosa rispose?
«Il giornalista».
E Mitterrand?
«Mi affascinava meno. Uomo di contraddizioni: era stato a Vichy; da ministro dell’Interno aveva sostenuto l’Algeria francese. Però era un uomo di grande cultura e di tratto elegante. E amava sinceramente l’Italia».
Gorbaciov?
«Non l’ho mai stimato. I colloqui con lui si assomigliavano tutti: poneva una domanda, fingeva di interessarsi alla risposta; poi partiva con un monologo interminabile, in cui spiegava quel che voleva fare. Ma forse non lo sapeva nemmeno lui».
Lei fu accusato, in particolare da De Mita, di non aver compreso l’importanza della svolta di Gorbaciov.
«Dubito che De Mita abbia letto i miei rapporti da Mosca. Forse quelli che glieli hanno riassunti l’avranno tratto in errore. Forse avranno detto che a Mosca, secondo me, non accadeva nulla. Ma io scrivevo che non capivo la strategia di Gorbaciov. Aveva avviato una riforma velleitaria dalle conseguenze imprevedibili».
La conseguenza fu la fine della guerra fredda.
«E non è detto che sia stato un bene. La guerra fredda ha garantito la pace».
Tra i politici italiani, chi è stato il migliore nella politica estera?
«Andreotti. La capiva e la sapeva fare. Ogni volta che veniva a Mosca, la Pravda lo intervistava in prima pagina. Non erano interviste dirimenti: il giornalista non faceva domande scomode, e Andreotti badava a non scoprirsi. Era un segno di stima. I sovietici sapevano che gli altri andavano e venivano, compreso Craxi che pure era un uomo intelligente; Andreotti sarebbe rimasto».
E Moro?
«Purtroppo Kissinger non aveva torto. Tradurre Moro in inglese non era soltanto difficile; era spesso inutile: i suoi interlocutori stranieri non avrebbero capito. Ricordo un nostro incontro. Gli dissi che il vizio dell’Italia era l’incapacità di innovarsi, di sperimentare. Rispose che era proprio così. Ma palesemente la considerava una virtù».
Lei passa per un nemico di Israele.
«Non lo sono. Partecipai dell’entusiasmo per la nascita di Israele nel 1948. A Milano e a Vienna vidi i sopravvissuti dei campi di concentramento cominciare il loro lungo viaggio verso la nuova patria, proseguito spesso su navi italiane. Oggi di questo entusiasmo non vedo tracce. Gli israeliani hanno dilapidato un immenso patrimonio di simpatia e sostegno».
Ma hanno un leader forte come Netanyahu.
«Che non mi pare stia facendo una politica lungimirante. Certo per i palestinesi, cui nega il diritto a uno Stato nazionale; ma probabilmente per il suo stesso popolo. Dirlo non significa essere anti-israeliani, anzi».
Cosa resterà di Berlusconi?
«Ho sempre avuto simpatia per lui. Gli riconosco energia e coraggio. Ma è sempre rimasto un uomo d’azienda: cosa impossibile per un uomo politico, che deve legiferare e agire nell’interesse generale. Ricordo un incontro al Corriere. Gli posi la questione. La evase. Insistetti. Continuava a non rispondere. Dovette intervenire Ferruccio de Bortoli, a farmi notare che i miei sforzi sarebbero stati vani».
Cosa pensa di Salvini?
«Salvini non mi piace. Non mi piace quel che dice, non mi piace quel che fa, non mi piace quel che vuole».
Qualcuno vede in lui germi di un nuovo fascismo.
«No, è un fenomeno diverso. I sovranisti sostengono il recupero dell’identità nazionale, dopo vent’anni di egemonia del pensiero liberaldemocratico, aperto alla società multiculturale. E manifestano una certa nostalgia per l’epoca – avversata dai loro nemici – dei regimi autoritari e identitari. Una nostalgia che non ha nessuna ragione d’essere».
Come vede il futuro dell’Italia?
«Non lo vedo bene. Anche se il nostro rimane un Paese per certi aspetti ammirevole…».
Quali aspetti?
«Abbiamo avuto tre guerre civili: al Sud dopo il Risorgimento; poi negli anni tra la Grande Guerra e la marcia su Roma; infine tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945: una guerra tra italiani che in Emilia durò ancora per un altro anno. Per tornare alla pace civile abbiamo fatto compromessi: abbiamo traslocato una buona parte dello Stato borbonico nello Stato monarchico, una buona parte dello Stato giolittiano nel regime fascista e l’intero Stato fascista nello Stato repubblicano. Non fu bello, ma fu una prova di saggezza. Per questo però siamo un Paese zoppo. Limitato nella sua libertà di pensare, di immaginare. Di sperimentare, come avevo detto a Moro».
Lei crede in Dio?
«No, purtroppo; se credessi tutto sarebbe più semplice.. Ma preferisco definirmi agnostico piuttosto che ateo. L’ateismo è un’ideologia religiosa».
Come immagina l’aldilà?
«E se non esistesse?».
Cosa resterà allora di noi?
«Questo è un pensiero che ci sta a cuore finché siamo in vita. Dopo, probabilmente, no».