Corriere della Sera, 7 luglio 2019
Il mondo diviso da 70 barriere
Al confine con il Bangladesh, la polizia indiana ha la mano pesante. Le statistiche dicono che almeno un centinaio di persone vengono uccise ogni anno mentre cercano di passare illegalmente, o con poca attenzione, il muro di filo spinato che divide i due Paesi. Felani Khatun, una ragazza di 15 anni, bangladese, lavorava come domestica a Delhi. Il padre le aveva organizzato un matrimonio in patria ed era andato a prenderla nella capitale indiana. Non avevano documenti regolari e, tornando, decisero di scavalcare il muro con una scala a pioli. Era il 7 gennaio 2011: il padre passò per primo; Felani, seguendolo, rimase impigliata nel filo spinato; le guardie indiane la notarono e aprirono il fuoco. La fotografia della ragazza crivellata di colpi, a cavallo della barriera, camicia rossa e pantaloni blu, fece il giro del mondo. Era l’International Border 947, nella parte Nord del Bengala Occidentale: il corpo rimase appeso agli uncini per un giorno intero.
Storie di muri, come ce ne sono tante. Qualche anno prima, sempre nel West Bengala ma più a Sud, nella zona di Basirhat, mi capitò di incontrare un contadino: indiano ma in realtà abitante di una terra di nessuno. Il confine tra India e Bangladesh, al tempo Pakistan Orientale, fu tracciato con pressapochismo da Cyril Radcliffe, che al momento dell’indipendenza del subcontinente dall’impero britannico presiedeva il comitato che tracciò le linee di frontiera nella Partition tra India e Pakistan. A Est, la Radcliffe Line ha diviso intere comunità, addirittura famiglie. Ma fino agli Anni Ottanta attraverso la linea di frontiera si circolava con non troppa difficoltà. Poi, però, Delhi ha deciso di costruire il muro, la fence di filo spinato: gli accordi erano che non si poteva tirarla su se non a 150 metri dal confine, e così fecero gli ingegneri indiani. Successe però che nella striscia tra il muro di ferro acuminato e il confine con il Bangladesh rimasero una quantità di abitazioni: ancora oggi almeno 90 mila persone vivono in questa striscia, interrotta solo quando il confine è segnato dai fiumi. «Ogni giorno che devo andare al mercato o dal medico devo presentare i documenti alle guardie dei cancelli», raccontava il contadino. E, naturalmente, nella terra di nessuno niente servizi, niente acqua e niente elettricità. Il governo di Delhi spiega l’infinito muro — 3.287 chilometri e non è mai terminato — con la necessità di controllare l’immigrazione, di bloccare i terroristi e di impedire il contrabbando di bovini. Quanto funzioni e quale ne sia il costo, in termini di manutenzione e di vite umane, è questione controversa.
È che ogni barriera di confine non è solo un manufatto inerte: mette in moto dinamiche politiche, sociali, economiche, ambientali difficili da prevedere e controllare. Ciò nonostante, la corsa a tirare su i muri è in pieno svolgimento. La dichiarazione d’intenti più recente e più vicina è quella del ministro Matteo Salvini che non ha escluso la necessità di alzare «barriere fisiche» sulla frontiera tra Italia e Slovenia per fermare l’immigrazione incontrollata. Il progetto più discusso è invece quello di Donald Trump al confine tra Stati Uniti e Messico.
È che viviamo tempi nuovi. Nel 1987, a Berlino Ovest, il presidente Ronald Reagan pronunciò il famoso discorso «Mister Gorbaciov, tiri giù questo muro». In effetti, due anni dopo il Berliner Mauer si sgretolò: sembrava che tutti i muri dovessero crollare, che le frontiere si annullassero, che il mondo fosse finalmente piatto, senza ostacoli da superare. Che la Storia fosse finita, come decretò Francis Fukuyama. Non è stato così. Nel 1990, alla caduta della Cortina di Ferro (il più grande muro politico e fisico mai visto), si contavano 15 barriere di confine, una decina in più di quelle in essere alla fine della seconda guerra mondiale. Oggi ce ne sono settanta e almeno altre sette sono in via di realizzazione o già finanziate. Non è finita la Storia e non è finita nemmeno la geografia: il mondo non è piatto, è sempre più punteggiato da frontiere dure, di cemento e filo spinato, e tecnologiche, telecamere e droni.
Elisabeth Vallet, docente di Geografia all’università del Québec a Montréal ha condotto quello che è probabilmente lo studio più approfondito sulla moltiplicazione dei muri, sulle ragioni per cui sono eretti e sulla loro efficacia. È lei che ne ha contati settanta più i sette in preparazione (sono solo le barriere non mobili, puntualizza). Ed è il suo studio che è stato citato da Trump per dire che tutto il mondo alza muri, non si capisce perché lui non dovrebbe farlo. In realtà, chiarisce Vallet, il presidente ha omesso la seconda parte del suo studio, cioè che queste barriere non funzionano, che sono «una reazione alla globalizzazione». Fatto sta che la mappa dei tanti muri di confine è sorprendente, per dove sono e per le ragioni per le quali sono stati alzati.
Il Botswana, per dire, ha costruito uno sbarramento elettrificato lungo 500 chilometri con lo Zimbabwe dopo un’epidemia di afta epizootica che nel 2003 ha colpito centinaia di allevamenti e forse veniva dal Paese vicino. Vicino che, invece, accusa il Botswana di averlo tirato su per fermare i migranti. Come che sia, la corrente elettrica non è mai stata attivata ma la barriera rimane. Sul filo spinato tra il Sudafrica e il Mozambico, invece, l’elettricità correva a 3.500 volt — localmente era chiamato «serpente di fuoco» — e negli Anni Novanta ha ucciso centinaia di mozambicani che fuggivano dalla guerra civile. Più a Nord, il Sahara Occidentale è attraversato da un muro alto tre metri e lungo 2.600 chilometri formato da sabbia e attrezzato con filo spinato, radar, bunker, chilometri di campi minati e guardato da centomila soldati. Lo ha voluto il Marocco per frenare gli attacchi del Fronte Polisario. Poco si sa anche della barriera a cinque file che l’Arabia Saudita ha eretto sul confine con l’Iraq dopo il 2014, per bloccare i terroristi dell’Isis. Un altro lo sta costruendo alla frontiera con lo Yemen.
A rovescio è invece il muro di una decina di chilometri che l’Egitto ha costruito, con l’aiuto di Washington, per isolarsi dalla striscia di Gaza: si sviluppa sotto terra, per bloccare i tunnel che Hamas ha costruito a scopo di contrabbando e per importare armi. Qualcosa del genere sta facendo Israele sul suo di confine con la Striscia di Gaza, per impedire il rifornimento ad Hamas e per fermarne le infiltrazioni militari nel suo territorio. Molti altri sono stati costruiti negli anni: il più famoso e maggiormente militarizzato, quello che divide Nord e Sud della Corea sul 38° parallelo.
Tutto questo, per molti versi è storia. Qualche volta con risultati decenti, altre volte con fallimenti totali: la Grande Muraglia rallentò ma non fermò gli assalti mongoli alla Cina; la Linea Maginot, il complesso di difese che la Francia innalzò negli Anni Trenta come barriera difensiva contro la Germania, fu superata a Nord dagli eserciti di Hitler.
I muri più recenti sono però cronaca, attualità. E a guardare il complesso di quanto è successo e sta succedendo le sorprese sono ancora maggiori. Dagli Anni Novanta a oggi, gli Stati membri dell’Unione europea e dell’Area Schengen hanno tirato su quasi mille chilometri di muri (senza contare le operazioni di pattugliamento e respingimento in mare), secondo uno studio dello spagnolo Centre Delas. Nel primo decennio dopo la caduta del Muro di Berlino, le barriere alzate sono state due; nel 2015, anno della grande ondata di immigrati, il salto fu da cinque a 12; fino alle 15 del 2017. Dei 28 membri della Ue, dieci hanno alzato muri: Ungheria, Bulgaria, Slovenia, Austria, Grecia, Spagna, Lituania, Estonia, Lettonia, Regno Unito. Se si escludono i tre Paesi Baltici, che stanno costruendo barriere di difesa ai confini con la Russia (la Lituania con l’exclave di Kaliningrad), tutte le altre costruzioni sono state giustificate dalla necessità di fermare o rallentare i flussi di migranti. Prima quelli in arrivo dalla ex Jugoslavia, poi quelli spinti dalle guerre in Siria, Iraq, Libia, molti dei quali arrivavano dalla rotta dei Balcani. Fino agli immigrati che tentano di passare in Gran Bretagna da Calais — dove i britannici hanno alzato una barriera — attraverso il tunnel sotto la Manica. Fortezza Europa, dice lo studio del centro Delas: sigillata alle frontiere esterne.
I movimenti migratori, insomma, sono diventati la ragione principale per la quale i governi alzano muri o — come in Australia in modo inflessibile e nel Mediterraneo con meno determinazione — schierano le navi. Gli esperti per lo più sostengono che, così come in guerra i muri sono serviti a poco e al giorno d’oggi servono a nulla, anche per fermare gli immigrati non funzionano molto. In realtà, la rotta balcanica è stata chiusa. È però vero che chi vuole arrivare in Europa cerca altre strade. E qui c’è un punto importante: più è difficile passare un confine, più chi lo vuole superare deve prendere dei rischi. Se il motivo per il quale ha deciso di emigrare è forte — fuggire da una guerra o dalla miseria — calcolerà il pericolo che corre rispetto a quanto rischia rimanendo nel luogo di partenza.
La questione muri che si moltiplicano è dunque complicata. Non sono particolarmente efficienti. In gran parte dei casi sono un’iniziativa di propaganda dei governi per mostrare che fanno qualcosa: si tagliano nastri. Al contrario di quanto dice Trump del «beautiful wall» con il Messico, non sono una visione edificante. Sono però un elemento ricorrente nella storia quando le popolazioni si sentono insicure: ingenuo rigettarli su basi ideologiche. Raphael Cohen, un esperto dell’americana Rand Corporation e insegnante alla Georgetown University di Washington, sostiene che in alcuni casi sono utili in quanto «ostacoli di rallentamento». Ma «nessun muro storico si è dimostrato inespugnabile», aggiunge. Possono essere strumenti tattici: ad alto costo, come racconta la sorte della giovane Felani. La strategia, però, è un’altra cosa.