Corriere della Sera, 7 luglio 2019
I perché dell’emergenza rifiuti a Roma
Oltre mille netturbini «inabili al servizio di raccolta» e trecento tonnellate di spazzatura che dovrebbero essere raccolte ogni giorno e invece vengono lasciate, da settimane, a marcire in terra perché l’Ama non sa dove portarle. La proiezione della crisi dell’immondizia della Capitale si percepisce, con occhi e naso, intorno ai cassonetti romani che ogni giorno si riempiono di 3,1 mila tonnellate di rifiuti indifferenziati (4,6 mila il totale). Così, per schivare il rischio dell’emergenza sanitaria, la municipalizzata dei rifiuti, che corre per ripulire Roma rispettando il cronoprogramma fissato dall’ordinanza della Regione, ha chiesto uno sforzo a tutti gli impianti del Lazio che già accolgono la spazzatura della Capitale: 650 tonnellate al giorno per tornare a condizioni accettabili, ovvero le 300 del quantitativo ordinario più le 350 tonnellate che servono a smaltire l’accumulo.
Alla raccolta devono pensare 4.000 netturbini dell’Ama (su 7.560 dipendenti) organizzati ogni giorno in quattro turni da mille (un po’ meno la domenica quando lavorano 1.750 dipendenti). Ma ora che c’è la crisi si tenta di andare a pieno regime, per quanto è possibile. I vertici dell’azienda, appena insediati dopo l’azzeramento del vecchio Cda a febbraio, lamentano carenze nel personale visto che negli ultimi giorni sono arrivati almeno mille certificati medici per problemi cutanei legati alla raccolta a terra o respiratori per i miasmi della putrefazione. E gravi lacune anche nel parco mezzi: 350 compattatori su 700 sono fermi e circolano appena 800 dei 1.900 autoveicoli in dotazione per il ritiro a domicilio. Del resto il parco è vetusto (età media 10 anni), e il tasso di indisponibilità tra guasti e mancate manutenzioni raggiunge il 55%.
In ogni caso la montagna di immondizia deve essere raccolta, stoccata sul territorio anche se i quartieri protestano (oggi scade l’accordo con il sito di Ponte Malnome, vicino a Fiumicino, ma il Comune ha identificato un’altra area a Saxa Rubra, non lontano dalla Rai), e poi trattata e smaltita. E infatti la prima destinazione sono gli impianti Tmb – acronimo di trattamento meccanico-biologico – che, in sostanza, sono sei. Sette, se l’Ama rispetterà il diktat di Zingaretti di rimettere in funzione l’impianto mobile di Ostia. Il Comune di Roma aveva due Tmb fino a dicembre – Salario a nord, Rocca Cencia a est —: il primo è stato chiuso dopo un incendio e il secondo è saturo, aperto in via straordinaria anche la domenica non può ricevere rifiuti extra.
Gli altri sono tutti privati e con costi da privati. E a loro è stato chiesto di accollarsi il surplus di 650 tonnellate al giorno. Due, sempre a Roma, fanno capo a Manlio Cerroni e lavorano a mezzo servizio perché sotto manutenzione. Poi ci sono il Tmb di Ecologia Viterbo, Saf di Frosinone e l’impianto della Rida Ambiente ad Aprilia. Quest’ultimo, strategico per la crisi, ha detto no alla richiesta dell’Ama di aprire i cancelli a 350 tonnellate in più rispetto alle 900 che già riceve da Roma, salvo poi ripensarci per timori di sanzioni da parte della Regione: da domani farà entrare i camion dell’Ama. In più c’è l’impianto della Deco in Abruzzo che ha il contratto con l’Ama in scadenza a fine luglio.
Una volta trattata, la spazzatura si rimette in viaggio per l’impianto di smaltimento. Nel Lazio c’è la doppia natura: da una parte le discariche di servizio che si trovano a Roccasecca (Frosinone), Viterbo, Pomezia, Colleferro e Civitavecchia; dall’altra il termovalorizzatore dell’Acea, altra partecipata del Comune, che è a San Vittore, in Ciociaria. Adesso i rifiuti romani fanno un giro immenso: nel prossimo piano Rifiuti, in corso di approvazione in Regione, si recepisce il «principio di prossimità» imposto dall’Ue. Significa, in pratica, che Roma dovrà fare tutto dentro i confini del suo comune.