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 2019  luglio 07 Domenica calendario

Intervista alla scrittrice nera Maryse Condé

La vita senza fard sia soprattutto la riflessione di un essere umano che tenta di realizzarsi pienamente. E che la felicità finisce sempre per arrivare». La voce di Maryse Condé è ormai un classico della "letteratura francofona", anche se è una definizione che lei non ama. Nata nel 1937 in Guadalupa, in una famiglia della piccola borghesia di Pointe-à-Pitre, Condé è cresciuta protetta dal razzismo fino a quando è arrivata a Parigi per condurre gli studi, scoprendosi nello sguardo degli altri come "nera". Dopo aver insegnato a lungo alla Columbia University, è tornata a vivere in Francia, trasferendosi nel piccolo borgo provenzale di Gordes insieme al marito britannico e suo traduttore Richard Philcox. La vita senza fard (ora tradotto in Italia dalla Tartaruga) è un’autobiografia senza concessioni di Condé che l’anno scorso ha vinto il Nobel "alternativo" per la sua importante opera nella quale, hanno scritto i giurati, ha saputo cogliere «le devastazioni del colonialismo e il caos del post-colonialismo».
Ha cominciato a scrivere solo dopo i quarant’anni. Perché ha aspettato così tanto?
«Scrivere o vivere, bisogna scegliere, ha detto una volta Jean-Paul Sartre. È una frase che illustra perfettamente il mio percorso. Fino a quarant’anni, la mia vita è stata molto complicata.
Ho dovuto crescere quattro bambini da sola, mi sono esiliata negli Stati Uniti per trovare un lavoro adatto a me. E quindi mi mancava la pace e il tempo libero senza i quali non c’è scrittura.
Inoltre, da bambina, ero convinta che "le persone come me" non potessero scrivere, intendo: donna, donna di colore, proveniente da un piccolo Paese senza importanza.
Solo col tempo ho superato tutti questi ostacoli, conquistando finalmente abbastanza fiducia in me».
Da bambina ha fatto piangere sua madre scrivendole una poesia. Fu quella la prima scintilla?
«Non oserei dire che è stato l’inizio di una consapevolezza, ma sicuramente la sensazione di forza che ho provato allora è la stessa che si ripete ogni volta che pubblico un romanzo. In Vittoria, sapori e parole ho confrontato questa sensazione con quella provocata dal consumo di ganja, ovvero di droga».
"Vita senza fard" è il tentativo di mettersi completamente a nudo davanti al lettore. C’è qualcosa di femminile in questa esplorazione intima e audace?
«Per parafrasare il Jean-Jacques Rousseau delle Confessioni , ho voluto mostrare ai miei simili una donna in tutta la verità della sua natura e quella donna sono io. Ho sempre amato appassionatamente la verità, e la cosa mi ha spesso nuociuto tanto sul piano pubblico che su quello privato. Forse esiste la differenza tra la scrittura maschile e quella femminile, ma lo scrittore, indipendentemente dal suo sesso, deve sempre tentare di combinare la verità con l’immaginario».
Il Nobel "alternativo" le è stato assegnato dopo che l’Accademia svedese è stata travolta dagli scandali di molestie sull’onda del protesta #MeToo. Si sente vicina a questo movimento femminista?
«Ho uno sguardo molto positivo anche se ammetto che mi ha colto alla sprovvista. Pensavo che alcune battaglie fossero già state vinte dalla mia generazione. Sono rimasta sorpresa nel sapere che gli uomini fischiano ancora oggi le donne che trovano appetitose».
Per parlare del suo primo matrimonio con l’attore Mamadou Condé cita il proverbio "Meglio mal maritata che zitella". Usa molto l’ironia nei suoi libri.
Perché?
«L’ironia accompagna la verità.
Aggiunge una certa dolcezza, una distanza. Dire le cose brutalmente rischia di ferire, può provocare fraintendimenti. All’epoca quel matrimonio fu solo il tentativo di ritrovare il mio rango nella società.
Non ho alcun ricordo del nostro primo bacio, né di una conversazione con Condé. Meno di tre mesi dopo aver celebrato le nozze ci separammo. Non litigavamo. Semplicemente non potevamo sopportare di stare a lungo insieme».
Pur essendo nata in Guadalupa, che fa parte della Francia, è stata considerata una scrittrice africana. È qualcosa che rispecchia la cattiva conoscenza del suo Paese?
«Per gli europei il colore della pelle ha sempre avuto un’importanza eccessiva. È forse anche l’idea che ha difeso Aimé Césaire nella sua teoria sulla negritudine. Più prosaicamente, è un fatto che i librai francesi mettono insieme gli scrittori di pelle nera, non distinguono tra un autore del Congo o della Martinica. È per questo che spesso si usa l’espressione "scrittore francofono"».
Lei ha spesso riflettuto sull’esilio, l’identità, l’immigrazione. Come vede l’Europa in cui lo straniero è diventato un capro espiatorio?
«Lo straniero è sempre stato un capro espiatorio, è colui che viene da altrove e non conosce la complessità della società in cui viene gettato. Tuttavia guardo ai problemi dell’immigrazione in modo molto diverso. Ciò che conta per me non è l’accoglienza che le popolazioni ospitanti riservano allo straniero ma la responsabilità dei paesi di origine. Quando i paesi africani si preoccuperanno del benessere dei loro popoli? Quando diminuiranno guerre e conflitti?»
Gli intellettuali francesi fanno abbastanza per combattere la xenofobia?
«Ce ne sono che non usano giri di parole, penso ad esempio a Bernard-Henri Levy. Ho appena letto un libro di Philippe Claudel, intitolato L’arcipelago del Cane, che è una denuncia vigorosa e sorprendente riguardo all’accoglienza riservata ai migranti».
Il suo ultimo libro è ispirato alla poliziotta Clarissa Jean-Philippe uccisa dai terroristi negli attacchi del 2015. Perché si è interessata a questo caso?
«Sono colpita dai misfatti della globalizzazione presentata come qualcosa di positivo. Clarissa Jean-Philippe, nata in Martinica, aveva un sogno: proteggere il maggior numero di persone. È stata trascinata in un conflitto che non la riguardava direttamente e di cui è stata vittima. La Francia, dove Clarissa pensava di realizzare i suoi sogni, è diventata la sua tomba».