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 2019  luglio 07 Domenica calendario

Linda De Luca, lavoro: “interprete del dolore”

NEW YORK – «Il mio primo paziente fu un signore siciliano che un ictus aveva quasi completamente privato della capacità di parlare. Tradurre il suo dolore fu una bella sfida. Dovemmo costruire un rapporto di fiducia ed empatia. All’epoca mi sorprese che come primo incarico mi avessero dato un caso così complesso. Invece è la norma. Ci sono situazioni molto più critiche». Linda De Luca, 34 anni, di Varese, è per sua stessa definizione una “interprete del dolore”. Lavora negli ospedali di New York, traducendo ai medici la sofferenza dei pazienti e ai malati l’aiuto che gli sarà offerto. Un mestiere unico, che le ha aperto perfino le porte di Hollywood: come traduttrice della serie tv Grey’s Anatomy. Collabora anche con Roberto Saviano, che spesso assiste nei colloqui di lavoro.
Un mestiere complicato, il suo. Lo ha scelto per vocazione o per bisogno?
«Ho studiato interpretariato in Italia, dove ho cominciato traducendo libri. Ma il lavoro era precario e mi sono trasferita in America dove ho scoperto quasi per caso la specializzazione in linguaggio medico. Mi sono iscritta a un corso dove si insegnava la terminologia dei diversi ambiti - anatomia, patologia, farmacologia – e si parlava molto di approccio col paziente, diritto alla privacy. Ho fatto colloqui con agenzie specializzate: e, cinque anni fa, hanno cominciato a chiamarmi».
Come andò con quel signore siciliano?
«Mise subito alla prova i miei limiti. Anche perché, inusualmente, lo seguii per un mese intero. Di solito ci fanno ruotare, per evitare che il paziente si affezioni e che noi si resti emotivamente coinvolti. Lo vidi migliorare giorno dopo giorno sentendomi davvero parte della sua guarigione».
Si prepara in anticipo sulle malattia delle persone che assiste?
«Macché. Mi mandano un programma giornaliero dove sono scritti gli orari, il nome del paziente, l’ospedale: il resto è a sorpresa. Può essere la visita da un neurochirurgo, una sessione di fisioterapia, la preparazione per la sala operatoria. È imprevedibile».
Tanto dolore che impatto ha sulla sua vita privata?
«Delle persone che assisto ho imparato a vedere la forza più che la sofferenza. Certo, situazioni tragiche mi hanno straziato. Ma chi affronta percorsi del genere, lo fa con ottimismo e per sono come una palestra che mi fa minimizzare i miei problemi».
C’è una storia che l’ha colpita più di altre?
«Di sicuro non dimentico coloro a cui ho dovuto dire che avevano pochi mesi di vita. Ma il lavoro m’impone di essere come un robot e trasmettere con precisione le parole dei medici. A colpirmi poi, sono i bambini. Penso a una ragazzina arrivata in condizioni disperate, con una sindrome rara. La famiglia in crisi che per seguirla rischiava il posto di lavoro. L’ho vista stare davvero male. Ha lottato, sopportato di tutto. È stata un’esperienza così speciale che, anche se non dovrei, con lei sono ancora in contatto».
Quali sono le parole che usa di più?
«“Pain” dolore: da intendere nelle sue sfumature perché in America tutto si calcola su una scala del dolore che va da uno a dieci. E poi “treatment” trattamento, farmacologico o di cura. E "cancer" tumore: la malattia più diffusa»
Chi paga?
«L’ospedale. Gli stranieri sono tanti e senza interprete non li visitano neanche. Ma i pazienti spesso si pongono la stessa domanda angosciati. "Scusi ma quanto mi costa?"» L’esperienza in ospedale le ha aperto altre strade… «Sì, forte del mio Grey’s Anatomy quotidiano scrissi alla casa di produzione della serie, mi misero alla prova e ho tradotto per loro le ultime due stagioni. L’aspetto medico fu meno impegnativo di quel che temevo. Difficile, invece, tradurre le frasi idiomatiche. Non ci dormivo la notte…»
E la collaborazione con Saviano?
«La prima volta che lo incontrai non lo riconobbi. Aveva la barba lunga e il cappello di lana. L’ho aiutato a proporre soggetti a Netflix e nel rapporto con gli editori americani. E sono stata con lui a Napoli quando per la presentazione de La paranza dei bambini , accompagnò una giornalista del New York Times nei quartieri spagnoli. Fu intenso…».
Serie tv, libri, scrittori: è sicura che continuerà a lavorare in ospedale?
«Senza dubbio. È un lavoro che mi da tantissimo. Imparo cose nuove ogni giorno. Anzi: se potessi tornare indietro studierei medicina».