la Repubblica, 7 luglio 2019
I conti in rosso del Pd
Contrordine compagni. Il Pd resta dov’è, al Nazareno, nel cuore del cuore di Roma. Non si sposta né verso sud, sull’Ostiense, né a Est, in Via Merulana. Anche se, ufficialmente, la nuova sede si sta ancora cercando. Non è solo una questione di comodità: in una metropoli caotica come la capitale, con mezzi pubblici poco efficienti e le Camere non più a due passi, per i vertici dem – i vicesegretari Orlando e De Micheli, il tesoriere Zanda – risulterebbe davvero complicato raggiungere il quartier generale. È soprattutto una questione di soldi. Le casse sono in sofferenza. Le ultime elezioni hanno dimezzato il numero dei parlamentari e dei consiglieri regionali, e con loro i contributi dovuti da ciascun eletto, spesso oltretutto in ritardo o inevasi. I versamenti del 2 per mille languono, a fronte dell’attivismo finanziario di alcuni iscritti, vedi alla voce Carlo Calenda, che continuano a raccogliere fondi per le loro iniziative politiche anziché dirottarli sul partito. Il trasloco rischierebbe di trasformarsi perciò in una spesa aggiuntiva. E di rivelarsi poco conveniente sotto ogni profilo, rispetto ai propositi iniziali del segretario.
Meglio allora star fermi. E però restringendosi un po’. Diminuendo cioè i metri quadri a misura di sondaggio. Una versione bonsai del tempo che fu. La decisione messa nera su bianco nelle relazione sul bilancio 2018, certificato a maggio. È lì, nella parte finale sulla «evoluzione prevedibile della gestione», che Zanda il tesoriere rivela il destino della sede nazionale: scaduto il 30 giugno il contratto di affitto, «è in corso una trattativa con la proprietà per il rilascio di alcuni spazi e la conseguente riduzione del canone di locazione».
Una misura obbligata per abbattere i costi in epoca di entrate non proprio floride. E cercare pure di tutelare i 165 dipendenti del Pd in cassa integrazione: alla scadenza del 31 agosto, infatti, «il partito è fortemente intenzionato a richiedere la proroga della Cigs per ulteriori 12 mesi – si legge ancora nella relazione – e potenzierà le fonti di finanziamento al fine di incrementare il fondo incentivi all’esodo, per consentire una fuoriuscita meno traumatica del personale». E siccome c’è ancora troppa gente che, a dispetto di un Pd in bolletta, “dimentica” di versare le quote obbligatorie (per deputati e senatori pari a 1500 euro al mese, più un altro importo variabile da girare alle federazioni regionali) si «continuerà caparbiamente nell’azione volta al recupero, anche coattivo, delle somme dovute dai parlamentari morosi». Qualcosa come 800mila euro di crediti non riscossi: molto superiori al buco di bilancio (circa 600mila euro) registrato nell’ultimo esercizio.
Il problema è che nell’ultimo anno pieno di finanziamento pubblico, progressivamente ridotto fino all’azzeramento avvenuto nel 2017, il Pd ha incassato 40 milioni. Che i circa 7 arrivati dal 2 per mille nel 2018, ovvero il contributo volontario che ogni cittadino può versare ai partiti, non riescono in nessun modo a compensare. Se poi a ostacolare i flussi di cassa ci si metton o pure le fondazioni personali (come quella di Renzi, Open, ormai chiusa) e le iniziative politiche di questo o quel parlamentare, il quadro diventa ancora più fosco. Non è un caso che al Nazareno non sia piaciuto apprendere che Carlo Calenda continua a incassare, attraverso il sito aperto prima delle europee, contribuzioni volontarie per il suo manifesto confluito poi nel Pd. Per di più pubblicizzandolo proprio col logo dei Democratici. Spiega infatti Zanda: «Mi sono arrivate delle segnalazioni che voglio controllare perché effettivamente “Siamo europei” è cosa diversa dal Pd e il simbolo del Pd per raccogliere fondi lo può usare solo il Pd».