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 2019  luglio 07 Domenica calendario

La burocrazia e le case

La gara scatta alle 7.30 in punto del mattino, quando l’ufficio condono di Roma apre le prenotazioni per le visure delle pratiche: online, nientemeno. Ma ci vuole un miracolo. Accettano solo i primi sei. Gli altri, ritentino il giorno dopo. Sei visure, sei appuntamenti al giorno. Con 180 mila pratiche giacenti. E i miracolati prenotati possono accendere un cero se riescono a visionare in tre mesi. Certo, sempre meglio di quei poveracci costretti a dormire in macchina ogni lunedì e giovedì, a Roma, davanti agli uffici dove per gli aggiornamenti catastali si può dare un’occhiata ai vecchi progetti, per non rischiare di vedersi sbattere la porta in faccia, visto il limite tassativo dei 30 appuntamenti quotidiani. Ora anche loro possono prenotarsi online: sollievo. Ma siccome le carte stanno nel magazzino di Pomezia, a trenta chilometri di distanza, e capita, perché è capitato, che l’appalto alla ditta di trasporto sia scaduto, possono trascorrere anche più di sei mesi per vederle.
I paletti della direttrice
Dal Campidoglio al ministero dei Beni culturali. Dove i paladini delle semplificazioni cantavano: “Vittoria!”. Come dargli torto? Finalmente un pizzico di buonsenso si era fatto largo nella giungla delle ottusità burocratiche: un decreto aveva escluso dalle autorizzazioni paesaggistiche una miriade di piccoli lavori che prima finivano intrappolati nei labirinti dei Beni culturali. Roba che non c’entrava niente, per inciso, con la sacrosanta tutela del paesaggio garantita dall’articolo 9 della Costituzione. Dai pannelli solari invisibili dall’esterno alla sostituzione di piante e arbusti nei giardini, dalle tende rimovibili dei bar alle serre agricole stagionali, dalle lapidi nei cimiteri alle insegne commerciali nelle vetrine dei negozi… C’erano voluti un sacco di lavoro e un sacco di tempo. Ne era venuto fuori un provvedimento sterminato di qualcosa come 120 mila caratteri con l’elenco dettagliatissimo delle cose che si potevano fare senza più chiedere il permesso alle soprintendenze, o di quelle per cui si poteva fruire di una procedura molto più semplice. C’era anche il facsimile del modulo disponibile sulla Gazzetta ufficiale.
Ma non avevano fatto i conti, in quel gioioso 22 marzo del 2017, con il ministero. Ecco allora, il 21 luglio seguente, una circolare interpretativa della direttrice generale Caterina Bon Valsassina. Che in 36 (trentasei) pagine ha piantato intorno a quel decreto una quantità di paletti tale da ricostruire il labirinto. Quale necessità ci fosse, a valle di un provvedimento così dettagliato, di avere anche una circolare interpretativa di trentasei pagine, si spiega solo con la solita storia della burocrazia che non vuole perdere un briciolo di potere. Il risultato? Mesi e mesi di lavoro e nemmeno un passo avanti.Questa storia, rimasta sepolta per due anni nei misteriosi anfratti dei nostri Palazzi, non stupirà di certo chi ha avuto anche per un solo momento a che fare con un problema del genere. Quando si entra nel campo dei permessi e delle autorizzazioni per tirare su un muro, chiudere una finestra o restaurare una vecchia casa, le insidie sono spesso insuperabili, tanto per i privati cittadini quanto per le imprese. La colpa è di quella che ormai si definisce “burocrazia difensiva”. Le cui armi sono la continua produzione di norme (uno studio della Confartigianato ha dimostrato che in Italia per ogni legge cancellata se ne fanno 1,2 nuove) e il loro continuo cambiamento. Mentre non c’è governo che invece prometta di rendere a tutti la vita più facile. Ricordate l’ultimo di Silvio Berlusconi? Correva l’anno 2010, 19 marzo: «Il nostro motto è “Tutti padroni in casa propria”. Si dovrà soltanto comunicare per via telematica l’impresa che realizzerà i lavori. Un tonico anche per le nostre aziende edilizie», disse il Cavaliere. Proprio così. L’associazione dei costruttori denuncia che per un permesso di costruire «si può arrivare ad allegare più di 30 documenti. Per una piccola impresa almeno 19 ore al mese sono dedicate agli adempimenti burocratici preliminari, con un costo di oltre 7.500 eur o l’anno». E quando si dice di voler semplificare, bene che vada resta tutto come prima. Il caso classico è quello del regolamento edilizio unico. In Italia ognuno dei circa 8 mila Comuni, indipendentemente dalle dimensioni, ha il proprio. Capita che un lotto edificabile si trovi a cavallo di due Comuni diversi, e che per il regolamento di uno dei due il portico sia considerato par te integrale della cubatura, ma per il confinante no. Impossibile uscirne, con o senza portico. È successo davvero, al confine fra i Comuni di Sergnano e Pianengo, in provincia di Cremona. Ma più banalmente, perché a Lamezia le porcilaie non possono essere costruite a meno di 30 metri dalle abitazioni? O a Catanzaro vige l’obbligo di depositare le tinte in cantiere prima della verniciatura per consentire la verifica della rispondenza al progetto? Oppure a Bologna è tollerata un’eccedenza costruttiva del 2 per cento rispetto al progetto mentre a Pescara del 3 per cento? E a Piacenza è tassativo prevedere uno spazio di 30 metri quadrati per i giochi dei bambini ogni nove alloggi? Con le camere da letto di minimo 14 metri quadrati a Firenze e di almeno 24,30 a Reggio Calabria? E perché un alloggio abitabile a Milano non deve avere una superficie inferiore a 28,80 metri quadrati? Già: perché? Se lo è chiesto anche la Regione Lombardia, che una quindicina d’anni fa aveva recepito questa surreale norma. Tanto che l’ex presidente Roberto Maroni aveva assicurato di averla abolita. Peccato che nessuno se ne sia accorto. Ci sono 393 case popolari costruite ottant’anni fa dallo Stato (dallo Stato!) che essendo di superficie inferiore sono tuttora considerate illegali ai fini abitativi e quindi non vengono affittate. In compenso molte di esse sono occupate da inquilini abusivi. L’assurdità era stata segnalata dalla stampa quattro anni orsono. Inutilmente, ovvio.
Casi come questi hanno dato la spinta nel 2014 a una iniziativa rivelatasi visionaria: il tentativo di fare anche in Italia un regolamento edilizio uguale per tutti i Comuni. Ci hanno messo 21 mesi, e per raggiungere alla fine un unico obiettivo. Che le definizioni siano identiche dappertutto. Cioè, la stessa cosa che si chiama “veranda” o “superficie utile” a Napoli si deve chiamare “veranda” o “superficie utile” anche a Torino, Roma, Cagliari e Gorizia. Ventuno mesi, quando ne bastarono diciotto per scrivere la Costituzione. E a distanza di cinque anni la cosa non è stata recepita neppure da tutte le Regioni. Quanto ai contenuti del regolamento, è tutto esattamente come prima. Ogni Comune è rimasto sulle sue. La prova regina è il confronto fra i nuovi regolamenti edilizi di Firenze (100 pagine) e di Prato (197), due Comuni contigui che li hanno varati a marzo di quest’anno “in attuazione del regolamento edilizio tipo approvato dalla Regione Toscana il 21 maggio 2018”. Lì si può davvero scegliere fior da fiore. A Firenze le pareti dei bagni devono essere rivestite di materiale lavabile fino all’altezza di un metro; a Prato fino a un metro e mezzo.

Le verande di Prato
A Prato è consentito fare le verande; a Firenze le verande non sono contemplate. A Firenze i parapetti sono alti un metro; a Prato dipende: possono essere anche di 90 centimetri. Mentre a Milano continuano a svettare a un metro e dieci, e di sicuro sarà per la maggiore prestanza fisica dei milanesi.
Arrivati qui, per cercare di impazzire del tutto non resta che affrontare il capitolo dei regolamenti d’igiene. Come per i regolamenti edilizi, ogni Comune ha il suo. L’origine del tutto è in certe istruzioni ministeriali del 1896, riprese nel 1934 e modificate nel 1975. Da allora è stato un profluvio di norme regionali e soprattutto comunali che hanno inondato gli uffici tecnici dei municipi. Dal Sud al Nord. Il Comune di Nardò in Provincia di Lecce ha un regolamento d’igiene di 257 articoli nel quale si premette che ogni concessione edilizia va subordinata al «motivato parere igienico-sanitario» del «Servizio igiene e sanità pubblica». Il Comune di Fossano in Provincia di Cuneo, 1.200 chilometri più su, ne ha uno di 563 articoli a cui se ne devono aggiungere altri 72 di norme integrative. Dove per esempio si stabilisce che «il terreno su cui si costruisce un edificio dev’essere asciutto o reso tale mediante drenaggio, colmata od arginatura (art. 138)» con la prescrizione ulteriore che «i pavimenti dei locali di abitazione debbono essere costruiti da un fondo a superficie unita sul quale i materiali applicati come rivestimento dovranno essere disposti in modo da non costruire infrattuosità o lacune atte a ricettare polvere, insetti o materiale putrescibile (art.162)». Leggendolo, non si fa fatica a credere che questo capolavoro, attualmente in vigore, affondi le proprie radici nel secolo XIX. Sono invece saldamente ancorate al giorno d’oggi, con i Comuni alla canna del gas, certe vessazioni burocratiche apparentemente incomprensibili.

Abuso con paesaggio
Ne sanno qualcosa quelli di un condominio di via Garigliano, a Milano, una parte del quale era stato distrutto da un incendio. Il Tar ha deciso che per ricostruirla si devono pagare nuovamente al Comune gli oneri concessori: 58.514 euro. La ragione? La tassa è esclusa solo per le calamità naturali, e un incendio non lo è. Hanno già pagato una volta? Pazienza: che ripaghino. Ma questa almeno è una vessazione, pur discutibile, che porta qualcosa alle casse pubbliche. Niente a che fare con il caso che racconta l’architetto Leopoldo Freyrie, già presidente dell’ordine. Il quale, incaricato di abbattere un abuso costruito in un condominio, si è visto respingere la richiesta di permesso presentata al Comune di Milano. Motivazione, la mancanza della valutazione dell’impatto paesaggistico. Per capirci: l’Italia è devastata da costruzioni abusive che non si riescono ad abbattere, e quando finalmente se ne vuole abbattere una, bisogna accertarsi che la sua demolizione «non alteri punti di vista panoramici o contraddistinti da uno status di rappresentatività nella cultura locale» o «non interferisca con i caratteri morfologici dei luoghi». Commenta Freyrie: «Se è così, non possiamo escludere che alcuni famosi ecomostri dovrebbero perfino essere vincolati». Insomma, una follia. Che pure aveva fatto accendere una spia al ministero dei Beni culturali, se nel decreto di cui abbiamo parlato all’inizio, subito reso inoffensivo dallo stesso ministero, la demolizione degli abusi era una di quelle attività per cui la valutazione paesaggistica era stata esclusa. «Solo che in questo caso», precisa Freyrie, «non era stata richiesta a valere su una norma nazionale. Ma della Regione Lombardia». Due leggi sulla stessa scemenza. A questo punto non c’è che da confidare nella medicina immaginaria dell’architetto Marco Ermentini, collaboratore di Renzo Piano nel gruppo di lavoro sulle periferie, che l’ha proposto in un convegno sul terremoto di tre anni fa in Centro Italia: «Siamo di fronte ad una specie di muro normativo, un labirinto burocratico ispirato a una concezione frammentaria delle cose. Sembra proprio che nel Bel Paese ogni volta si cominci da capo e, cosa ancor più grave, la conoscenza dia fastidio. Ci vorrebbe un farmaco efficace contro le molestie burocratiche. La Citroburocratina».